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“… ellos quieren contarnos”

di Mariano Colla
“Por la alegria vivo, por la alegria lucho, por la alegria muero. Que jamas la tristeza vaya unida a mi nombre”.
Così Alexandro Enrique Gutièrrez, desapericido il 24 luglio del 1978 a 25 anni, vedeva la vita.
In occasione del 63° anniversario della dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, l’ambasciata della Repubblica Argentina in Italia e la facoltà di Scienze della Formazione di Roma hanno organizzato la mostra fotografica “…ellos quieren contarnos” (loro vogliono raccontarci), emozionante testimonianza costruita su alcuni frammenti di storie di vita di coloro che non ci sono più, oggetti raccolti per ricordare i quasi 30.000 desapericidos, vittime innocenti della brutale dittatura argentina che ha governato il paese sudamericano dal 1976 al 1983.
I 50 manifesti in mostra raccontano la storia di una generazione scomparsa partendo dalla loro quotidianità: come vestivano, le poesie che leggevano, le lettere che scrivevano, le foto delle comunioni, dei loro amici, dei loro parenti, dei loro amori giovanili.
Il materiale, raccolto con dedizione e affetto da genitori, parenti e amici dei giovani scomparsi, ha consentito di recuperare i ricordi di una generazione, affinché il loro sacrificio non fosse preda dell’oblio.
La manifestazione è stata inaugurata dal prof. Gaetano Domenici, preside della facoltà di Scienze della Formazione, alla presenza di alcune esponenti del celeberrimo movimento delle madri di plaza de Mayo, movimento chiave per il ripristino della legalità in Argentina e per il recupero, anche se solo parziale, delle testimonianze legate alla sparizione di tanti giovani.
Gli anni della dittatura argentina dei generali Videla, Agosti, Massera, Galtieri, riportati recentemente alla ribalta dalla condanna all’ergastolo di molti di loro e dei loro accoliti, sarebbero probabilmente caduti nell’oblio se non fosse stato per le costanza e la pervicacia di queste donne, madri e nonne, che, a rischio della propria vita, hanno affrontato con coraggio i battaglioni paramilitari sguinzagliati dalla feroce dittatura.
Nel volto di Taly Almeida, anziana signora presente alla conferenza di apertura, il cui figlio fu sequestrato in quel periodo e mai più ritrovato, emergono i tratti di una sofferenza antica mai sopita, resi ancor più duri dalla determinazione e dalla volontà di riscatto che scaturiscono dalle sue parole.
Il viso rugoso, avvolto nel fazzoletto bianco diventato simbolo della lotta e immortalato sul selciato della piazza di Buenos Aires, tradisce emozione ma la voce vigorosa e sicura, nonostante l’età, risuona nella sala, forte e incisiva, sollecitando una certa commozione sui volti dei molti giovani presenti.
Taly Almeida ha brevemente ripercorso le efferate conseguenze dell’operazione Condor, come veniva chiamato il programma di sistematica eliminazione di ogni forma di opposizione politica al tempo della dittatura militare.
La totale assenza di tracce dei giovani scomparsi ha generato il desiderio di ricostruire delle testimonianze visive, attingendo a quanto ogni famiglia aveva conservato dei propri cari, nonostante il perverso tentativo della dittatura di cancellare testimonianze e ricordi.
Con fatica l’Argentina ha saputo ricostruire la propria storia dopo la tragica esperienza della dittatura e, in buona parte, deve questo risultato grandioso al movimento delle madri di plaza de Mayo che, negli anni, si è organizzato, non solo per dare visibilità ai desaparecidos ma anche, se non soprattutto, per ritrovare i figli di costoro, strappati, ancora bambini o, peggio, appena nati, a madri e genitori, per essere affidati alle famiglie dei militari colluse con il potere.
I cartelloni in mostra raccolgono, come detto, spezzoni di vita degli scomparsi.
Non sono fantasmi, dice accorata Taly Almeida. Sono stati essere reali, con le loro passioni, con le loro ambizioni, i loro studi e affetti, anche se non hanno una tomba su cui piangerli.
Ogni cartellone raccoglie ricordi dell’infanzia e della prima adolescenza, immagini della famiglia, in alcuni casi della moglie o del marito e dei figli piccoli.
Sulle immagini sbiadite, come una ferita aperta è indicata una data.
E’ la tragica giornata in cui, nel pieno della notte, i battaglioni della morte sono entrati nelle case strappando ai loro cari le vittime predestinate, figure che dovevano sparire nel nulla, senza più un nome senza più un corpo.
Unica colpa quella di svolgere una attività politica e sociale.
Volti, giovani volti sorridenti di ragazzi e ragazze, ancora ignari del tragico destino che li attendeva, si susseguono, icone in bianco e nero di un cupo periodo per la storia dell’umanità.
Volti dietro i quali è difficile immaginare le sofferenze e il dolore causato da mani e menti irresponsabili e ostili.
Eppure, come mostrano i toccanti filmati, questi giovani, a lungo, sono stati trattenuti in ambienti vicini ai loro cari e alle loro famiglie.
Scantinati, soffitte, scuole militari, ospedali, sono stati usati come luoghi di tortura e di detenzione.
Emergono ancor oggi luoghi di supplizio che la dittatura militare ha cercato di celare sotto strati di cemento per evitare il giudizio della storia.
Lugubri anfratti sui cui muri esili tracce riconducono a un ultimo atto di giovani senza speranza che hanno, forse, voluto lasciare un ultimo messaggio, una ultima testimonianza di presenza, di vita, prima di essere inghiottiti dal grande sepolcro dell’oceano, ultima destinazione degli infelici che venivano imbarcarti sui voli della morte.
La mostra è aperta al pubblico dal 12 al 21 Dicembre (9,30 – 19,30) presso la facoltà di Scienze della Formazione dell’università degli studi Roma tre, 4° piano – Via Milazzo 11/b.

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