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Il culto della personalità

di Mariano Colla
Quando negli anni 50’ i Mig della Repubblica popolare cinese e i Sabre americani incrociavano i cieli al di sopra del 38° parallelo in un conflitto noto come guerra di Corea, pochi avrebbero immaginato che, sessanta anni dopo, la separazione tra Corea del Nord e Corea del Sud avrebbe mantenuto alta la tensione tra i due paesi, e che il regime di Pyongyang avrebbe ancora goduto dell’ampio consenso del suo popolo .
Negli anni del conflitto Kim Jong-il, il leader recentemente deceduto, aveva appena 10 anni e il paese era dominato dal padre Kim Il Sung, che conserva ancor oggi il titolo di Presidente Eterno.
Fu uno dei periodi più acuti della guerra fredda tra il blocco dei paesi comunisti e l’occidente, un contrasto militare e politico che rischiò di condurre il mondo verso la terza guerra mondiale e l’uso indiscriminato degli ordigni nucleari.
Corea del Nord e Corea del Sud si fronteggiarono, con alle spalle rispettivamente Cina e Russia da una parte e gli Stati Uniti dall’altra.
Quando il conflitto terminò, il 38° parallelo, quale zona smilitarizzata creata tra le due Coree, segnò la linea di demarcazione tra il mondo comunista e l’occidente, alla stregua di quanto accade con il muro di Berlino nel 1961.
Ma se il muro di Berlino è caduto nell’ormai lontano 1989, il 38° parallelo è rimasto in piedi a sancire un contrasto ideologico tra la Corea del Nord ed il resto del mondo, laddove quest’ultimo, nel frattempo, ha smarrito le contrapposizioni dottrinali, e il paese asiatico rappresenta l’ultimo baluardo di una presunta ideologia comunista, quando, in realtà, il dispotico governo della dinastia al potere ha tratto e trae la sua forza da un opportunistico travisamento del pensiero marxista-leninista.
La Corea del Nord si è isolata per reggere a ogni forma di intromissione che potesse nuocere agli equilibri del potere, coltivando, inoltre, uno smisurato culto della personalità dei suoi governanti a partire da Kim Il Sung, per continuare con Kim Jong-il e, probabilmente, per proseguire con il figlio di quest’ultimo, Kim Jong-un, che già gode di un roboante appellativo: il grande successore.
La recente morte di Kim Jong-il, leader incontrastato della Repubblica democratica popolare di Corea per oltre 50 anni, ha riportato alla ribalta le contraddizioni di un paese isolato, governato secondo severi paradigmi dogmatici, brutali sistemi di polizia, cultura di massa imbevuta di simbolismi propagandistici al limite della megalomania.
Eppure un intero popolo piange il suo leader, masse incolori si assiepano intorno ai luoghi del potere per esprimere commozione e dolore.
La propaganda televisiva trasmette immagini di masse addolorate, di volti sfatti dall’angoscia e dal lutto. Un popolo, da lustri ridotto alla fame, dominato da una dittatura assoluta, si lacera nel dolore per la perdita del suo amato condottiero. I luoghi testimoni della presenza del grande leader diventano luoghi di adorazione, sublimazione estrema del culto della personalità.
La mestizia lascia il posto a un senso di tragedia incombente, in un crescendo collettivo di lamenti, gemiti e pianti, tragico quadro che si inserisce nella grigia e anonima cornice fatta da austeri edifici, file inregimentate, abiti e divise volutamente opache. Nei volti dei coreani in lacrime sembra emergere solo un ruolo pubblico ed esteriore, come se non esistesse la sfera del privato, la sfera della interiorità e della autenticità.
Un popolo da decenni senza riferimenti culturali con il mondo esterno, con modelli di vita imposti, succube di una informazione di regime tarata sull’unicità del messaggio politico, è il terreno giusto su cui seminare psicosi collettive, non ultima il dolore di scena.
Già, perché l’osservatore occidentale può nutrire qualche perplessità sull’autenticità di tale lutto collettivo.
A una esteriorità massificata nel dire e nel fare non necessariamente corrisponde una interiorità ugualmente uniformata o, per lo meno, può rimanere il dubbio, a vantaggio del popolo nordcoreano, che il dissenso possa in qualche modo covare in questo popolo a lungo represso.
Mentre i coreani vivevano in uno stato di progressiva indigenza, Kim Jong-il alimentava le sue stravaganti manie, dalla passione per il cognac e i film di James Bond, a un bizzarro guardaroba privato, a stuoli di parrucchieri che curavano la cotonatura dei capelli.
Mentre il suo popolo moriva di fame, o campava solo grazie agli aiuti della vicina Cina, Kim Jong-il amava circondarsi di leccornie provenienti da tutto il mondo, dal bacon danese, al caviale iraniano e ai manghi thailandesi.
Insomma un dittatore a tutti gli effetti, spietato e apparentemente poco sensibile alle vere esigenze del suo popolo.
In un mondo in fermento per i diffusi movimenti di protesta e insurrezioni contro ogni forma di dittatura, sorprende, per lo meno per quanto ci è noto, l’orientamento controcorrente del popolo coreano, non certo immune da soprusi, e nel quale non sembra manifestarsi il pur minimo movimento di rivalsa, sebbene la Corea del Nord sia ormai inserita all’interno di uno scacchiere regionale asiatico che, sia nella forma economica sia nella forma politico-sociale, ha fatto notevoli passi aventi nel campo delle libertà individuali e di sistema.
Quali spiegazioni può pertanto avere l’adesione reale o apparente dei coreani al progetto politico, per usare un eufemismo, di Kim Jong-il ?
Senza voler entrare nei complessi meccanismi che influenzano e regolano la psicologia di massa emergono, tuttavia, alcune considerazioni.
Se il conflitto ideologico si identificava nelle contrapposizione tra diverse visioni del mondo, il conflitto tra culture parte da un bisogno di appartenenza identitario, non cosa voglio ma chi sono io. Anche se si genera un bisogno di identità di fronte a fenomeni che appaiono pericolosamente omologanti, non si può escludere che il popolo coreano sia giunto a tale appartenenza identitaria anche in seguito all’imposizione di un modello educativo e di controllo rigido e dogmatico.
In tale contesto è venuta probabilmente a mancare una ricerca consapevole di senso nell’identità sociale formatasi come appartenenza a una comunità e, sotto la dittatura della uniformazione, si è pervenuti all’annullamento di ogni diversità.
Etienne de la Boetiè scriveva nel “discorso sulla servitù volontaria“ che il potere nasce da un atto di volontaria sottomissione. Senza il consenso il sovrano non dura.
Con quale potere Kim Jong-il ha dominato il paese e ha guadagnato consenso?
Al di là di una ferrea dittatura, che ha però retto nel tempo, si può ipotizzare che Kim Jong-il incarnasse doti di leadership.
Insomma un leader carismatico che non basava il proprio potere sul diritto ma consolidava la sua legittimità grazie a un rapporto con le masse, laddove muoveva emozioni e su di esse creava consenso.
Secondo alcuni osservatori internazionali, con la morte di Kim Jong-il, si dovrebbe chiudere un’epoca.
L’unico paese al mondo, le cui frontiere sono difficilmente valicabili anche da parte della diplomazia tradizionale, dovrebbe virare verso forme politiche meno oscurantistiche e aprirsi lentamente ai rapporti internazionali.
Kim Jong-un, l’erede, si dovrà confrontare con una probabile transizione che tutti si augurano pacifica per gli equilibri della zona, da sempre luogo di pericolose tensioni internazionali.
Nella maschera funerea del volto di Kim Jong-il la Corea del Nord, forse, vede l’immagine di un passato che non tornerà più.

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