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Un napoletano a New York. Paolo Sorrentino e il suo prossimo film con Sean Penn

di David Spiegelman
Consumata senza soprannumeraria fortuna una controversa escursione nella narrativa, con il romanzo Feltrinelli   Hanno tutti ragione arrivato terzo allo Strega, per sua e nostra fortuna Paolo Sorrentino torna al cinema. Il cineasta napoletano, dopo quattro lungometraggi di crescente fortuna (L’uomo in più, Le conseguenze dell’amore, L’amico di famiglia e Il divo), mette un Atlantico tra sé e sé per un’intrapresa che lo colloca tra il Sergio Leone di C’era una volta in America e il Gabriele Muccino di La ricerca della felicità. Quale la prossimità vincente, occorrerà ancora non molto tempo.
Nel panorama difficile del cinema italiano, dove Moretti fa vicenda a sé e Garrone è indeciso se sfidarsi, Luchetti si è riservato la parte di Ken Loach, rinunciando a quel ruolo di erede della grande commedia di costume che la sua intelligenza per la battuta e il suo talento satirico gli avrebbero aggiudicato, a beneficio di Virzì che pure in gioventù giudicava Lo stato delle cose il più grande film di sempre. Rubini si è perso nelle sue Puglie, più sanguigne di quelle di Ozpetek, Salvatores in una Milano che esiste soltanto al cinema, Soldini negli esercizi di stile. Così gli esordi memorabili riguardano registi non privi di capelli grigi, come Gianni Di Gregorio (Pranzo di ferragosto) e Luigi Sardiello (Piede di dio).
Ecco allora che Sorrentino, scampato a un incasellamento letterario con un libro che riprendeva stancamente i temi meno felici del film d’esordio, sceglie l’America come contesto di un lavoro ontologicamente molto atteso, per via di un sorprendente coproduttore come Intesa San Paolo – agevolato dalla disciplina fiscale – tra i finanziatori, oltre a case “professionali” come Medusa, Indigo e Lucky Red per una base economica di 28 milioni; ma soprattutto per un cast internazionale, mirato a un prodotto esplicitamente finalizzato agli Oscar.
Questo This must be the place, titolo di una canzone dei Talking Heads il cui frontman David Byrne lavorerà alla colonna sonora, vedrà infatti come protagonista Sean Penn, presidente di giuria due anni fa a Cannes quando Il divo ottenne il premio speciale del collegio. Nell’occasione, l’ex marito della popstar Madonna suggerì a Sorrentino di tenerlo presente per un futuro film: e il regista ha scritto per l’attore una storia che intreccia il dramma della Shoah con le vicende private di una famiglia americana. Tra i personaggi coinvolti, anche Harry Dean Stanton, il protagonista di Paris, Texas e Frances Mc Dormand, moglie di Joel Coen e Oscar per Fargo nel 1997.
Il profilo planetario è insomma esplicito, per Sorrentino che, varcata la linea d’ombra dei quarant’anni, ha deciso di misurarsi con l’America, esportandovi il suo modo melanconico e introverso di vedere il mondo e raccontare le vite degli altri. Poco o nulla ancora si sa del soggetto, se non che è stato scritto dallo stesso regista e che narra di una rockstar in disarmo (figura similare sia al Pisapia de L’uomo in più che al Pagoda di Hanno tutti ragione) determinata a riscattare una vita scivolata nella semioscurità con la ricerca dell’uomo che durante la seconda guerra mondiale aveva perseguitato suo padre.
I fattori che di solito conducono una pellicola al Kodak Theater e dintorni ci sono tutti, resta da capire se e come Sorrentino dovrà pagare un prezzo, e quale, all’ingresso nello scenario hollywoodiano. Tra i suoi predecessori italiani, alcuni raggiunsero la statuetta più desiderata imponendo senza concessioni il proprio stile a un mondo sintonizzato su altre frequenze, come fu il caso di Fellini; altri scelsero, per calcolo o versatilità, di rimodulare il proprio linguaggio in un codice espressivo più familiare all’America: Turnè e Marrakech Express non avrebbero mai vinto l’Oscar, come invece sarebbe riuscito al meno felice Mediterraneo, mentre sia Tornatore che Benigni limarono lirismi e asprezze sulla chiave di una visione assai stereotipata dell’Italia, quella che gli americani coltivano secondo la presbiopia intellettuale e il complesso di superiorità.
Sorrentino appartiene peraltro a quella napoletanità notturna e implicita, nel suo raccontare per immagini non sono reperibili similitudini immediate di scuola, se non con il primo Martone (Morte di un matematico napoletano) e l’ultimo Capuano (Luna rossa), sia pure con un respiro diverso legato a una vistosa originalità di linguaggio, purtroppo smarrita nella prova letteraria.
Andare alla conquista dell’America non è da tutti, specie se si fa del cinema. Si rischia di ripercorrere strade già praticate, o di discostarsene infruttuosamente per il puro gusto di scardinare consuetudini o rielaborare cadenze. Ma Sorrentino in tutta evidenza si sente pronto a una sfida complicata. O forse, il sospetto è forte, smette di raccontare l’Italia perché in questa Italia non è rimasto più nulla da raccontare. Nel presentare il progetto, il regista ammette l’ambizione di «risolvere in una storia personale i problemi di una famiglia e della grande famiglia europea». Sull’Italia, par di capire, è tempo di dissolvenza.

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