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Chador: la moda si ribella

di Annalisa Sofia Parente
Interpretare con i nostri filtri culturali la tradizione di un popolo evidentemente e volutamente diverso da noi, è un atto fallace e ingiusto, che porterebbe a soluzioni grossolane, pregiudizievoli o, peggio ancora, demagogiche.
Per questo non ho intenzione di condannare, ma solo di descrivere, sperando che la mia forma mentis non trasudi da qualche mio aggettivo o avverbio con i quali sono solita esprimermi incondizionatamente.
Già, oggi parleremo del chador che, in base ad una asettica definizione da vocabolario è un ‘velo portato dalle donne islamiche che copre le spalle, il capo e il volto, lasciando scoperti solo gli occhi’.
Argomento di discussione, contestazione, rivendicazioni femministe, il chador esiste da secoli ed ha una sua storia che contempla momenti di imposizione, accettazione o rifiuto. Momenti inesorabilmente legati ad auspicati o temuti avvicinamenti al mondo occidentale da parte della dirigenza politica di turno.
Infatti, prima del 1996, anno in cui il Regime talebano impose un codice d’abbigliamento ferreo per il genere femminile che prevedeva l’obbligo del chador per le bambine e del burqa per le donne, lo scià Reza Pahlavi (1936) aveva invece bandito l’uso del chador ‘perché incompatibile con le sue ambizioni di ammodernamento’: scelta moderna e coraggiosa per ‘difendere i diritti delle donne’… Eppure quelle donne che, pesanti di una tradizione di chador, decidevano di continuare a portare il velo per non sentirsi ‘nude’, venivano arrestate.

Oggi a spezzare la tradizione del chador come condicio sine qua non dell’estetica femminile è il presidente Mahmoud Ahmadinejad che ha sostenuto una linea di moda all’Occidentale, oggetto di un fashion show promosso dal Ministero alla Cultura e dalla Guida Islamica: non più chador nero o blu, ma cappotti sbottonati che lasciano intravvedere il corpo e hjiab (veli) colorati che coprono lievemente il capo.
Questa linea è già reclamizzata in tv e prevede 32 modelli di stilisti iraniani che interpreteranno il gusto e la tradizione delle giovani donne attraverso una innovativa e rivoluzionaria svolta decisamente… fashion!
Non ci aspettiamo uno stile alla MacQueen o la sfrontatezza della Westwood: il carattere rivoluzionario di questa iniziativa deve essere contestualizzato nella realtà in cui essa prende vita… che sia il mezzo di seduzione di una politica laicistica accattivante o il frutto di uno smussamento mentale in senso globale, questo adesso passa in secondo piano. Perché indossare una mantella di velluto colorata o un tradizionale chador austero dovrebbe essere una scelta arbitraria della donna, senza il timore di una intimidazione poliziesca.
Ma in fondo, che le cose stessero cambiando, era inevitabile: noi giovani donne, in qualunque parte del mondo ci ritroviamo ad esistere, siamo sostanzialmente uguali nella nostra componente più frivola e seduttiva…
Amiamo piacere e piacerci, amiamo il colore, la seduzione, il cambiamento.
Se pensiamo che circa il 70% della popolazione iraniana è composta da under 35, allora la valanga rivoluzionaria fashionista che spia il mondo di tendenze e stilisti dal web, appare più che prevedibile…
Nessuna di chi ha guardato il film di Sex and the City 2 potrà dimenticare la scena in cui le favolose Carrie, Samantha, Miranda e Charlotte restano stupite dinanzi a donne musulmane che, sotto i loro castigati abiti, nascondevano un look impeccabile e vistoso di gusto decisamente occidentale. Beh, la scena è sicuramente ‘caricata’, ma rispecchia la sfida e la ribellione di centinaia di ragazze iraniane che ogni anno vengono portate in carcere per aver trasgredito qualche norma del codice d’abbigliamento o per aver mal messo lo hijab.

L’entusiasmo è tanto, il vento di colorata innovazione soffia seducente, ma la paura di subire il peso di questa rivoluzione non si dissolve con le parole, anche se sono quelle di un presidente: così Zahra Ranjbar, organizzatrice del Fashion Show’, per proteggere le donne da possibili ritorsioni, ha parlato di codici da attribuire agli abiti approvati ufficialmente dal governo e di fornire un permesso scritto a coloro che decideranno di indossarli. Questo espediente per impedire che quelle donne vengano arrestate. E così, la provocazione divertente di quella scena di Sex and the City e la succitata universalità della vanità femminile sembrano inciampare nello spaventoso e sacro concetto di libertà.
Libertà di esprimersi attraverso i propri abiti, laddove si presume che l’indumento esprima una profondità psichica, assemblando e solidificando l’io rispetto ad una collettività divoratrice. La frase mitologica che caratterizza gran parte dell’universo femminile Cosa posso indossare? (traduzione da un imperfetto italiano parlato Che mi metto?) credo risalga ai tempi di Eva prima che scegliesse, tra le tante foglie, quella di fico per coprirsi… Eppure la leggerezza e il peso di questa frase non è consentita a quelle donne vestite dei veli imponenti di una, seppur fragile, tradizione.
Quanto siano forti queste donne, è la domanda che mi assilla da quando ho cominciato a scrivere questo articolo.

4 COMMENTI

  1. Grazie Annalisa per aver dedicato un articolo che parla di una certa condizione del femminile in maniera così aperta , sentita con schiettezza e spunti di riflessione.
    Ritengo che gli usi ed i costumi possano essere cambiati a piccoli passi poichè alcune culture hanno in se un messaggio profondo da voler mantenere.
    Ritengo che le donne abbiano in se la forza di essere ” FORTI” anche se in alcuni casi non possono permettersi di essere diverse ed accettare..loro malgrado delle condizioni imposte..

  2. Carissima Maria Rosa, accetto con vero piacere i tuoi complimenti… Sono perfettamente d’accordo con la tua linea di pensiero e credo che le vere rivoluzioni siano quelle che nascono dalla bramosia di libertà. In questo caso di ‘scegliere’.

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