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Buon compleanno Maestro Fellini… dalla tua Italia de “La dolce vita”

di Erika Sambuco
Nasceva 92 anni fa Federico Fellini, grande regista e sceneggiatore italiano originario di Rimini. E mentre internet si scatena per la chiusura di Megaupload e Megavideo e Google cambia aspetto dedicandolo a questo grande artista, noi di Itali@magazine lo omaggiamo presentando il nuovo libro di Oscar Iarussi ‘C’era una volta il futuro. L’Italia della Dolce Vita’ (edito da ‘Il Mulino’), che riprende un soggetto a noi caro come la poetica felliniana, con particolare focus proprio sul capolavoro del ‘61. 
Con l’autore, alla presentazione presso la libreria Fandango, sono intervenuti: Giancarlo De Cataldo, Domenico Procacci e Sergio Rubini.
Un autentico maestro del cinema come Jean-Luc Godard lo aveva capito da tempo: diceva che il film “è verità ventiquattro volte al secondo”. Una realtà parallela, un mondo che stranamente non è solo simile ma, addirittura, identico al nostro perché immerso nella nostra vita, calato con un ‘ciak’ nel nostro modo di essere società. Si fatica a crederlo, pensando alla nostra idea di cinema, quella delle mille finzioni, con le scenografie capaci di trasformare un paesaggio, sradicare un contesto, illudere e far sognare. Ma, se riflettiamo con attenzione, ci accorgiamo che un film può essere molto più vicino alla realtà di quanto possano esserlo una fotografia, un dipinto o un romanzo. In queste forme d’arte la costruzione scenica è meno evidente, ma solo per quanto riguarda le apparenze. È questa la magia del cinema: riuscire a sorprendere anche molto tempo dopo un ‘ciak’, anche dopo che la macchina da presa è spenta. Quanto potere in una pellicola! Aveva ragione Fellini, e forse non esagerava, quando diceva che “il cinema è il modo più diretto per entrare in competizione con Dio”. Un autore come Federico Fellini entra nella gloriosa schiera dei grandi registi e potremmo considerarlo un “visionario”, non solo per l’indiscusso valore dei film, ma anche, per quanto vi ha messo dentro, per aver indagato, più o meno consapevolmente, il futuro. Da morto, Fellini  ha ricevuto un nuovo Oscar. È “l’Oscar Iarussi” appunto, che nel suo libro ci propone una proiezione dei temi della cosiddetta ‘dolce vita’ sull’Italia di oggi. Il saggio di Iarussi (critico cinematografico, nonché responsabile delle pagine di Cultura e Spettacoli della Gazzetta del Mezzogiorno e docente di Storia del cinema americano all’Università di Bari) insiste su questo raffronto inedito tra gli anni Sessanta e i nostri giorni, spiegando quel “film del moderno” che è il nostro vivere, tanti decenni dopo.
La struttura narrativa di Iarussi ricorda, per alcuni aspetti, come le innumerevoli citazioni di opere, autori o concetti presi a prestito da filosofia, cultura e psicoanalisi, ‘Le Metamorfosi’ di Ovidio: una sorta di ‘labirinto verticale’ che, durante la lettura, rischiano di perdere il reale e sostanzioso concetto da cui si è partiti; anche il linguaggio usato dall’autore, spesso, non aiuta: usare il termine ebdomadario, che potrebbe esser tranquillamente tradotto con settimanale, non rende questa sua opera proprio a portata di tutti. Per non parlare di come spesso usa, in maniera impropria, concetti della psicoanalisi freudiana o della psicologia analitica di Jung, perdendone (sempre  nel suo labirinto) profondità e contesto.
Il libro tenta di ripercorrere, dunque, un itinerario culturale per sviscerare mode, manie, tendenze, vizi e virtù nazionali, partendo dal costume e dai riti che si potevano ammirare nella Roma del boom economico, seduti al tavolo di un caffè in via Veneto. Il testo è anche un tributo alla lucidità e al cinismo di Ennio Flaiano, ispiratore della pellicola assieme allo stesso Fellini, a Tullio Pinelli e a Brunello Rondi, e al potere della letteratura visiva di immaginare l’evoluzione delle abitudini popolari scorgendone, contemporaneamente, i punti di forza e le inevitabili mollezze.
“Fratelli d’Italia, l’Italia s’è spenta”. Per Iarussi ci troviamo in un “real Italy show” in cui la sobrietà di un governo è talmente elogiata da apparire extra-ordinaria; in cui non si ha ancora percezione della falsità dei reality show (nonostante i partecipanti abbiano statuto giuridico di attori), al punto che ormai vengono chiamati ‘reality’ senza che nulla sia rimasto dello ‘show’: un riflesso linguistico che tradisce un’errata concezione comune. Tutti sono costretti a recitare una parte in questo teatrino di marionette, anche i vari Saviano, Fazio, Guzzanti, persino il neopremier Monti quando, ospite a ‘Porta a porta’, vuole sottolineare che “se mi permette, dottor Vespa non sono qui per fare un piacere a lei”. Una tv che trita e metabolizza “di tutto e di più” (come sponsorizza la RAI quando è arrivata l’ora del canone) che rende insignificante ogni cosa. Un circo, insomma, ma ben lontano da quello di Fellini. All’ uomo capace di disvelare il reale, non resta che attraversare la farsa senza lasciarsi coinvolgere, proprio come fa Marcello Rubini, il giornalista che vive le situazioni più disparate senza mai scrivere un articolo in tutto il film; agli altri non resta che comportarsi da paparazzi, scambiando realtà con finzione, o vivere come lo sfortunato Steiner “fuori dalle passioni, oltre i sentimenti… distaccati”.
Il film ‘La Dolce Vita’, più che anticipare la condizione italiana attuale, in questo stato di profonda depressione economica e culturale in cui si stagna, racchiude una doppia anima italiana: quella di un paese che è spinto a mille verso il futuro, che ha una forza incredibile e che, proprio a causa di questa, non pensa e non vede il suo lato negativo, la sua debolezza, la sua fragilità, e dall’altra parte, quella fragile e debole, apparentemente senza speranza, senza futuro. L’Italia del dopoguerra, in piena depressione, non sembrava avere un futuro. Poi il boom economico, gli anni dal 1959 al 1963; addirittura viene dato un Oscar alla lira. Non c’è traccia di una possibile marcia indietro, nessuna possibile fragilità, debolezza, né nell’economia né nei costumi. L’Italia è in una botte di ferro, sembra che l’ascesa economica non debba arrestarsi mai. Ed ecco, proprio qui sta la chiave per interpretare quella pellicola e il Paese odierno. Nel film di Fellini questa doppia anima è presente: è come se ci dicesse: “Guardate che non siamo soltanto questo, non siamo solo dolce vita, c’è anche qualcosa di oscuro, negativo, una forza che, anziché spingerci verso il futuro, ci tiene fermi, ci àncora al passato, alla povertà, alla miseria”, e la scena della fontana (la più rappresentativa del film, quella che subito lo richiama alla memoria) lo mostra bene: nell’attimo più elegante, più glamour – se vogliamo più snob del film -, quello che meglio descrive la forza di quegli anni e la dolce vita che custodivano, durante il bagno della bellissima Sylvia (Anita Ekberg) nella fontana di Trevi con il protagonista (Marcello Mastroianni, anch’egli un sex simbol dell’epoca), c’è un garzone che assiste sì alla scena, ma non vi partecipa. Fellini, e l’intimità dell’anima italiana ferma e assente, è in quel garzone: il visionario si scopre dalla distanza con cui è abituato a guardare il reale. Sono due anime dell’Italia scollate, giustapposte, o c’è l’una o l’altra, come l’alternarsi di figura e sfondo. È la ciclotimia italiana, l’alternanza umorale colta nell’affresco felliniano che presagisce uno spleen ancora lungi dal manifestarsi nel tessuto sociale, svela le ombre del boom e racconta un mondo sull’orlo della ‘stupidità delittuosa’ della televisione. “La realtà è diventata grottescamente più felliniana che in Fellini”, “il torto peggiore che l’Italia potesse fare al sommo regista”.
Quella del passato era una società che sognava la crescita, oggi sogna al massimo una decrescita serena. In quel tempo, il sogno dei padri era permettere ai figli quel che a loro non era stato permesso, oggi i padri sognano che gli sparuti e sperduti figli mantengano un po’ del tenore di vita dei loro genitori. Veramente un modo vivo di parlare di cinema, come qualcosa che ci riguarda tutti da vicino  e dove quella di Iarussi, se vogliamo, è una visione un po’ nichilista dell’attuale nostra condizione: non c’è un futuro, nessun progredire (nel senso letterale ed etimologico inteso come andare avanti). Al massimo, possiamo non peggiorare stando fermi. “La realtà è diventata grottescamente più felliniana che in Fellini”, “il torto peggiore che l’Italia potesse fare al sommo regista”, soprattutto perché le persone che non ci sono più, si presuppone ci volessero felici ma noi oggi, nel nostro paese, non lo siamo poiché di quel dolce ci è rimasto il diabete e il colesterolo alto. Insomma, si potrebbe quasi dire che si stava meglio quando si stava peggio.

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