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Da oggi al cinema ACAB…'Celerino figlio di puttana'

di Erika Sambuco
‘Ceeeleeeriiinooo, figlio di puttaaanaa!’ è questo che canticchia ripetutamente Pierfrancesco Favino in una delle primissime scene del film. La cosa strana è che il “celerino” è proprio lui.
Era ora che Stefano Sollima si cimentasse con il grande schermo. Delle sue potenzialità sul piccolo ha già dato prova con la regia dell’apprezzatissimo ‘Romanzo Criminale – La serie’, raro esempio di fiction capace di catturare l’attenzione di un pubblico italiano esigente e giovane e quella di spettatori stranieri disabituati a tenere d’occhio le produzioni nostrane.
Per esordire, il regista romano sceglie di adattare l’omonimo libro inchiesta dello scrittore e giornalista Carlo Bonini, ‘ACAB‘ (edito in Italia da Enaudi). Egli individua una struttura forte di partenza, un punto di vista inedito e francamente impensabile nel nostro Paese e nel nostro cinema, segnalando che l’inferno non è mai (solo) là dove vedi fuoco e fiamme, e che il sangue più terribile non è mai (solo) quello che ci fanno vedere. Così, eccolo cimentarsi nel racconto, dal di dentro della vita, del pensiero e delle manganellate dei celerini. Il tutto, sullo sfondo di alcuni dei più sconcertanti episodi di violenza urbana accaduti in Italia negli ultimi anni: la violenza straziante di un paese sul quale grava ancora lo spettro ansiogeno del G8 di Genova – e di quanto accaduto alla scuola Diaz e alla caserma di Bolzaneto -, un paese nel quale poliziotti in servizio allo stadio vengono uccisi da tifosi e nel quale proprio ai tifosi si spara nel bel mezzo di un’autostrada. Donne che vengono violentate impunemente e gli ultras scatenano rivolte urbane con scenari apocalittici. Efficace, dunque, nel mettere lo spettatore di fronte al disagio della violenza, di quella violenza che non è solo e soltanto fisica, ma sociale, politica, etica e, soprattutto, una storia di uomini.
I protagonisti del film sono cinque: Pierfrancesco Favino è Cobra, un celerino che dell’appartenenza al gruppo del reparto mobile fa la propria ragione di vita (non avendone una personale); Filippo Nigro è Negro, un celerino con un forte senso di fratellanza e molto attaccato alla sua squadra. I suoi problemi familiari lo portano spesso a mettersi nei guai (è un uomo, un padre, ma soprattutto un poliziotto molto arrabbiato che finisce per riversare la propria rabbia verso chiunque). Mazinga, interpretato da Marco Giallini, è il celerino più anziano del gruppo e, forse, più stanco: non sopporta più la fatica fisica ed i continui scontri non solo in strada ma anche in famiglia (è il caposquadra ed ha raggiunto il culmine dell’educazione alla violenza e alla strada). C’è, poi, Carletto, Andrea Sartoretti, che, invece, celerino più non è ma che, insoddisfatto della sua vita, anziché cercare la causa del proprio fallimento in se stesso, dà la colpa a tutto ciò che lo circonda con odio (un odio che lo tiene ancora unito ai suoi ex-compagni, Cobra, Negro e Mazinga, unica “famiglia” a cui sente di fare parte). Infine, Domenico Daniele, una giovane recluta alle prime armi (nel film come nel cinema) interpreta Adriano, un ragazzo della zona suburbana della capitale con grandi problemi economici e familiari che, ben presto, entra a far parte del gruppo elitario, “celerini bastardi”.
“Celerini” e fratelli si sentono, più che poliziotti. Sulla loro pelle hanno imparato ad essere bersaglio perché vivono immersi nella violenza. In una violenza che diventa specchio deformante di una società esasperata, di un mondo governato dall’odio, che ha perso le regole, le stesse che loro, però, vogliono far rispettare, a volte anche non nel giusto modo. Ma, è il disordine che combattono? Forse no. I celerini di ACAB sono mossi da una rabbia potente che li domina e li spinge, senza giustificazione, contro quei deboli che, proprio come loro, sono mossi dall’esasperazione verso uno Stato distante, che non rispetta i loro diritti. Burattini in divisa, strumenti di una politica che, da troppo tempo, si è posta a debita distanza da una realtà ogni giorno più degradata e violenta; una realtà che fa paura, e si sa che, quando si è mossi dalla paura e dalla frustrazione di non essere ascoltati né protetti, nessun ideale, nessuna morale può fermare l’escalation della violenza. È in questi momenti che la giustizia personale diventa l’unica soluzione.
I celerini di Nigro, Favino e Giallini sono essenzialmente guerrieri, combattenti fedeli a un codice (e a un reparto) e chiusi in una psiche scultorea che non riesce a fugare le ombre di un pensare barbaro e radicale.
Cortocircuitando cronaca e cinema di genere, il regista prova a leggere la realtà sotto la scorza e dietro uno scudo, regalandoci uno spaccato di vita italiana come, e meglio, di molto realismo conclamato. ACAB interviene aspramente sui problemi sociali, giocando con la pura finzione ma facendo attenzione a non coprire la realtà con la vernice degli stereotipi. Questo, ben oltre il ritratto “da sotto la visiera del casco” degli agenti del Reparto Mobile, persone che fanno un lavoro sporco e difficile, purtroppo necessario, è il vero fuoco del film di Sollima. Anche perché, dopo quanto avvenuto a Roma il 15 ottobre 2011, il dibattito avvenuto in rete sul lavoro dei celerini, e sulle forze dell’ordine in generale, talvolta costretti a confrontarsi con la violenza, aveva già squarciato in parte il velo in precedenza alzato da Bonini.
La macchina da presa testimonia silenziosa le tensioni e lo stress che gli attori ‘agenti’ vivono in molte – troppe – situazioni, trattenuti da quadri legislativi sempre ambigui in un originario modello di braccio armato del  potere e impediti dai governi, nessuno escluso, a infilare la direzione di organo statuale garante dei diritti. Sollima, senza dimenticare o scontare la mentalità nera di quella struttura operativa, che ha radici sprofondate in una giovane Repubblica costretta a fare i conti con una continuità pressoché integrale della polizia fascista, mette in piazza uomini biasimati e disapprovati, malpagati, male addestrati e per nulla equipaggiati, che devono agire immediatamente, privilegiando l’efficacia ai valori democratici. Là fuori il controllo gerarchico si allenta e gli uomini restano soli con la paura di un ‘nemico interno’ e la libertà d’azione di fare il male, di fare male, di farsi male.
La pellicola, come sottolineato dal regista, non intende mettere sul banco degli imputati la Polizia: ‘Ho provato a fare un film di genere, intelligente che raccontasse, attraverso il punto di vista dei celerini, l’odio e l’intolleranza delle società in cui viviamo e dove tutti siamo, alla fine, vittime e carnefici di un sistema impazzito. È un poliziesco come quelli che venivano realizzati negli anni ’70’. Di nuovo, Sollima ha smentito presunti ‘parallelismi opposti’ con film come ‘Black Bloc’ o ’Diaz’, poiché, raccontare il G8 a loro non interessava dato che era già stato fatto molte volte.
Soddisfatto del lavoro di Sollima e di tutti i coinvolti in ‘ACAB’ è apparso Carlo Bonini: ‘Mi sembra che il film sia fedele allo spirito del libro, che aveva l’ambizione di scartare rispetto a una lettura bianca o nera della realtà. Il punto centrale è il cambio di punto di vista, l’adozione di quello di personaggi solitamente non raccontati e criticati: ci costringe a fare i conti con una parte di noi che rifiutiamo’.
‘C’è differenza tra morale e moralismo’, aggiunge poi Favino, ‘ma il film rappresenta la cose come sono senza chiedere mai allo spettatore di prendere le parti di qualcuno’.
Sin dalle primissime immagini, si capisce che è un film duro, d’impatto (come una manganellata) e per questo notevolmente affascinante. Girato con cura, stile, ben interpretato dai protagonisti, accompagnato da una fotografia dominante e da una colonna sonora, non solo pertinente al film, ma anche appartenente all’immaginario musicale dei protagonisti, come ‘Seven Nation Army’ dei White Stripes, base musicale dei cori dei tifosi negli stadi di tutto il mondo.
Personalmente, quando penso all’acronimo ACAB, oltre le reminescenze bibliche (l’apostata Acab nel primo Libro dei Re), mi torna sempre alla mente il titanico protagonista del celebre romanzo di Melville, ‘Moby Dick’, il tenace e folle capitano Achab, e l’eterna danza tra bene e male.
Chi, tra celerini e malviventi, sono i persecutori e chi i perseguitati? Dov’è il bene e dove il male? Come è possibile scinderli e definirli in modo chiaro e univoco? Come separarli per non doverli considerare insieme: parte della stesa natura, quella umana, che vorrebbe trovare rifugio e sicurezza abbracciando decisa l’una e rinnegando l’altra?
Non è semplice rispondere. Non è semplice abbracciare vittime e carnefici, giustizia ed errore, ritenendoli semi della stessa radice, frutti del medesimo albero. Terenzio ne ‘Il Punitore di Se Stesso’ afferma: ‘Sono un uomo e nulla mi è estraneo di ciò che è umano’. Questa, forse, è la chiave per sciogliere l’enigma. Questo è il punto che tanto tocca e affascina gli spettatori di questo film, come i lettori di miti, racconti e romanzi in cui tale complessità dell’animo umano è presentata e toccata da così vicino.
Nel già citato romanzo di Melville, per esempio, la sinistra e fascinosa complessità di bene e male pervade l’intera vicenda del Pequod, la baleniera comandata da Achab, alla tenace e folle ricerca del mostro bianco Moby Dick. Ma tra i due protagonisti, Achab e la Balena Bianca, chi è il persecutore e chi il perseguitato? Dove finisce l’uno e comincia l’altra? Non è forse vero che i due sono destinati a completarsi? A cercarsi fino alla catarsi finale? Fino a che il capitano, ossessionato dal mostro malvagio, sarà inghiottito nei gorghi creati dalla loro stessa lotta. L’uno e l’altra, come celerini e malviventi, complicano in sé la natura umana con tutte le sue sfumature benigne e malvagie.
Ognuno cerca e persegue il proprio viaggio, ciò che rende chiara e percorribile la vita; ciò che riesce a donarle un senso, a scandagliarne il mistero e la nebbia.
Il disagio di Achab è scritto nel corpo, nella gamba strappata dai denti del mostro, del tremendo Leviatano, e nella sua anima tormentata; dall’avversione e dalla sete di vendetta incistate ormai come un cancro. ‘Roso di dentro e arso di fuori dagli artigli fissi e inesorabili di un’idea incurabile’ scrive lo scrittore statunitense.
Il bianco del mostro marino richiama la sicurezza e la limpidità di una madre, o, con una lettura più vicina al film di Sollima, della giustizia e della legge. Eppure, lo sa bene il capitano Achab, nulla è così candido come appare: bene e male, la giustizia e la sua assenza, sono facce dello stesso volto.
Proprio come il coro da ultrà che apre il film, cantato anche prima di entrare in azione, caricare o prendere parte a dei tafferugli, che chiude in sé gli stessi intervalli, la stessa cadenza e melodia, di tante nenie e filastrocche dell’infanzia. Gli opposti si toccano e scoprono di non essere così distanti.
Un film che dividerà il pubblico, dunque, ma che, senza dubbio, lo scuoterà, riempiendone le menti con l’eco di un ritornello insistente e inquietante: ‘Ceeeleeeriiinooo, figlio di puttaaanaa!’.

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