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Del Teatro degli Orrori e del ‘Mondo Nuovo’ (Artaud è vivo e lotta insieme a noi )

di Francesco Corbisiero

‘Come diceva Pasolini, chi può veramente narrare la società, raccontare le sue ingiustizie, raccontare ciò che non funziona all’interno di una comunità data, qui, oggi, adesso? E’ colui che non ha niente da perdere: l’intellettuale, l’artista. Io non ho niente da perdere, non ho di che arricchirmi né di che impoverirmi. Posso soltanto dire, parlare, esserci’. ( Pierpaolo Capovilla )

 Premetto: farmi scrivere un articolo a proposito del Teatro degli Orrori è un autentico suicidio. E lo è perché sono così sentimentalmente legato a questo gruppo, e ne sono così visceralmente innamorato e sedotto, da riuscire con difficoltà ad essere critico nei confronti dell’operato di Pierpaolo Capovilla e soci e da non esser capace a non impelagarmi in miliardi di parole quando mi capita di descriverli, di raccontarli, di trasmetterli agli altri.

Quando in un’intervista chiesero a Nicola Manzan, frontman di Bologna Violenta e turnista del tour del Teatro Degli Orrori, cosa ne pensasse dell’allegra ghenga di cui faceva parte, lui rispose: ‘E’ il gruppo in cui sognavo di suonare da quando ero bambino’. E non può essere diversamente anche per uno come me, che semplicemente li ascolta: è il gruppo che ho sempre sognato di sentire (e con me, a quanto pare, altre migliaia di persone, soprattutto i giovani che son matti di loro). Un marchio di fabbrica inconfondibile e indimenticabile: la durezza del rock (e a tratti del punk e del metal più cattivi) e la poetica cruda, disperata, forte del cantautorato nostrano. E molto ci sarebbe da parlare delle esperienze che sono  confluite in questa band, dando alla luce un progetto unico nel panorama italiano, ma non lo farò. E non lo farò per una scelta ben precisa: il Teatro è il Teatro, e stare a elencare tutte le influenze che si sono cristallizzate in un tale diamante non sarebbe rispettoso nei confronti di un ‘prodotto’ (ma il Capovilla non gradirebbe affatto questo termine) che ha in luce le caratteristiche che lo rendono speciale. Una stella che vive e splende di luce propria.
Ma una luce oscura, che brilla di rabbia, di speranza e d’amore e illumina il buio di un’Italia sporca, ignorante e cinica, svelando a tutti la cattiva coscienza e la meschinità di un popolo intero, il nostro, vittima e carnefice nello stesso tempo, perpetuatore di pregiudizi intollerabili verso lo straniero. Proprio questo è l’obiettivo de ‘Il mondo nuovo’, così come lo era ‘A sangue freddo’: l’intento di mettere questo Paese a nudo e di fronte allo specchio che riflette la sua immagine nel rapporto con l’altro, col diverso (in questo caso l’immigrato) attraverso un concept album. E coloro che emigrano sono personaggi la cui storia è problematica da raccontare, per antonomasia: il paese da cui provengono non è più il loro e quello verso cui vanno non lo è ancora. Temi impegnati, profondi, controversi, che non si vedevano incisi su disco dai tempi di De Andrè, pronunciati finalmente con un portamento solenne e la voce chiara di chi sa di aver qualcosa d’importante da dire, in maniera intransigente, senza compromessi o giochi di parole, lontani anni luce dalla mediocrità disarmante della musica moderna. E quello stile, tutto personale, di prendere in pugno il cuore e le viscere dell’ascoltatore senza aver paura di sporcarcisi e di strizzarli come fossero una spugna, depurando da tutto il marciume e azzerando ogni certezza o presunzione.
Passando ad analizzare l’opera in questione ci si accorge subito che qualcosa è cambiato rispetto a prima e non nelle metriche e nei testi, ma nelle soluzioni compositive. L’uscita (temporanea) dal gruppo di Giulio Ragno Favero come bassista per passare dietro le quinte in veste di produttore e supervisore poco dopo l’uscita di ‘A sangue freddo’ si era fatta sentire. Ma qui Favero ritorna impetuosamente, rimette le mani sulle quattro corde e delizia, accompagnato da un Gionata Mirai più in veste di gregario che come vero e proprio attore principale, notevolmente cresciuto dopo la sperimentazione del suo disco solista ‘Allusioni’. E alla batteria, puntuale come sempre e vera pietra di volta della band, l’operaio scatenato dei ritmi Frank Valente. E su tutti, ancora un volta, un Pierpaolo Capovilla, attore nato, splendido interprete e impeccabile songwriter, in stato di grazia. In virtù di quanto detto fin qui, ‘Il mondo nuovo’ è un lavoro complesso, meno schietto dei precedenti ma ugualmente bello, anche se non facilmente assimilabile: se ‘Dell’impero delle tenebre’ è stato un gioiello del noise rock più acuto e criptico, autoreferenziale e alto nella sua destrutturazione della forma canzone classica e ‘A sangue freddo’ era il fiore all’occhiello di un punk tutto nostrano, pulito nei suoni e drammaturgico nelle liriche, ‘Il mondo nuovo’ è ibrido ma fedele alla linea, non è nulla di ciò che i fan potessero aspettarsi, né la stantia ripetizione di ciò che già è stato fatto e proposto al pubblico. Più tappeti elettronici (curati tra l’altro dagli Aucan e supportati dal duetto con Caparezza nella canzone ‘Cuore d’Oceano’, meravigliosa perla di una lunga collana di 17 tracce), linee di basso fastose (‘Io cerco te’ e anche ‘Non vedo l’ora’, pezzo forte e affilato come una lama), maggior attenzione agli archi (a riguardo, collaborazione eccellente con Rodrigo D’Erasmo degli Afterhours in ‘Monica’) e ritmi orientali e finora inediti (‘Gli Stati Uniti d’Africa’). Al Teatro degli Orrori, insomma, è riuscito proprio ciò che differenzia un normale band da un grande gruppo musicale, con tutti i se e i ma del caso: dare alla luce un album completamente diverso, nuovo, maturo. Perché in questa nuova avventura dei nostri quattro uomini in nero non c’è nulla che rimandi al passato. Niente. Tabula rasa.
Si astengano quindi dal comprare il cd i perditempo, gli ascoltatori di mente gretta, quelli che ‘non sono più come li ho conosciuti io, quelli degli inizi’, quelli del ‘si sono venduti al mercato discografico’ e affini. Sono dispensati dall’ascolto i fan che non sanno capire l’evoluzione dell’arte nel tempo e che sono troppo legati ai lavori precedenti, gli affezionati ai motivetti facili, orecchiabili e sbrigativi accompagnati da parole di gommapiuma, i neofiti che parlano del rap come nuovo cantautorato (sic!) e tutti coloro che pensano che con la musica (che nella sua forma più nobile rappresenta la cultura) non si può cambiare la realtà, tanto meglio adagiarcisi sperando che la realtà non cambi noi. Per far parlare di sé, questo disco non ha bisogno certo di bambinate del genere.

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