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Green: album di esordio di Simone Agostini

di Marco Milano
Una chitarra e un fiume di note. La formula unplugged, si sa, è stata ormai sperimentata e proposta anche da tutti i grandi padri del rock, e non solo. Spesso abusandone, per tornare quasi inevitabilmente a fusioni tra corde di nylon e amplificazione elettrica.
Simone Agostini si presenta invece nella forma più pura della composizione e performance acustica. Abruzzese, classe 1981, Agostini può già vantare una collezione di premi che confermano la sua popolarità di chitarrista: secondo classificato al concorso News Sounds of Acustic Music – premio Wilder Davoli – e guitar winner nella finale europea dell’Emergenza Acustic Showcase. Green è il suo lavoro di studio d’esordio, 10 brani strumentali, chitarra acustica protagonista indiscussa – con la sola eccezione di Childhood Memories, arricchita di viola e pianoforte col supporto di Peppino Pezzullo e Sandro Paciocco. Non è facile capire, in questo disco, quale sia il confine tra l’esaltazione del tecnicismo e la composizione complessa dei brani. Malinconia, nostalgia e inquietudine sono sensazioni immediate all’ascolto di Green. Lasciarsi andare al primo impatto offerto dalla chitarra di Simone Agostini potrebbe significare perdere altre suggestioni. Una cattiva abitudine, questa, che produce spesso facili stereotipi nel circo musicale degli ultimi anni. Si va oltre la cascata di ‘intimità’ delle Child Memories del secondo brano o di L’Enchantement du Phare. In Waiting for May è evidente il cambio di rotta verso atmosfere più soleggiate, ma vale pena riascoltare più volte brani come A25 – da cui è tratto il primo video ambientato nel traffico di Roma – ad esempio, o Brigante se more. Si può scoprire qualcosa in più del finger style che accompagna insistentemente la mano di Simone Agostini. E Green non sembra essere solo un esercizio di virtuosismo chitarristico, né un disco riservato ai cultori del genere. Una prova affascinante di come sfruttare la tecnica, piuttosto, che appare  magari anche ambiziosa quando si riescono a scorgere le atmosfere folk e country sparse qua e là in quel fiume di note.
Troppo facile credere che in questo siano complici i paesaggi abruzzesi, mentre al popolo di ascoltatori narcotizzati da troppa banalità farebbe meglio l’entusiasmo e la promessa di una nuova scoperta e la sua ispirazione. Da cui aspettiamo altre evocazioni, ancora col solo finger style, perché no?

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