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Il congedo di Cossiga, tra i segreti e i misteri d'Italia

Di David Spiegelman
Si dissolve nell’idea di un sorriso, come il Gatto di Lewis Carroll, l’autore che più dei due Moro, Tommaso e Aldo, ne aveva ispirato la lunga fuga attraverso la vita, nel cupo dopoguerra di un Paese privo di meraviglie. Francesco Cossiga ha sfuggito con successo il peggiore destino che possa capitare a un genio, quello di essere compreso. Il meno democristiano tra tutti i democristiani, sofferto credente e devoto al dubbio, cultore di diritto costituzionale, filosofia morale e amicizie hertziane, ha avuto dalla sorte quasi vent’anni di regno senza scettro: eletto al Quirinale per ragioni di geometria partitica – all’apogeo del craxismo, la presidenza della Repubblica toccava allo scudocrociato – ne discese in un tempo non molto meno fuligginoso di quello che lo aveva visto lasciare il Viminale.
Tutta la sua strada è segnata dalla precocità, partendo dalla laurea a vent’anni. Era così un giovane ministro di polizia, prossimo alla boa del mezzo secolo, quando di fronte al portellone spalancato di un’utlitaria francese, abbandonata nel cuore del cuore di Roma, per sommo sfregio, tra le sedi della DC e del PCI, decise di rinunciare al potere. Ma la sua era soltanto una mossa del cavallo: troppo importante la sua intelligenza politica, rara se abbinata all’inevitabile scettico cinismo dell’uomo di Stato, consapevole di che lacrime grondi e di che sangue. Ma il suo tempo si era fermato in via Caetani, tutto il resto era già trascorso. L’idea di non essere riuscito a salvare l’amico e antagonista avrebbe accompagnato per sempre Cossiga, anche nella gestione del suo primo e unico governo, a cavallo tra il decennio del Terrore e quello del Vuoto di Memoria.
Scintillante nella dialettica, inoppugnabile quanto al ragionare, smisurato nella cultura giuridica e filosofica, viaggiò nella prima parte del mandato di capo dello Stato – conferitogli al primo scrutinio, come mai si era verificato con i predecessori e che sarebbe riaccaduto soltanto in occasione dell’elezione di Carlo Azeglio Ciampi – a quota periscopica, emergendone nel momento critico del Novecento, in quella fine 1989 che vedeva il mondo scosso dall’implosione della guasta satrapia sovietica. Sotto le macerie della muraglia berlinese restava per sempre una visione dei rapporti di forza planetari, in cui l’Italia aveva avuto la rassicurante rendita di posizione dovuta alla sua foggia di nave portaerei.
Sui sommovimenti nel nostro Paese dei primissimi anni Novanta manca tuttora una ricostruzione storica non controversa, così come sulle ragioni del ruolo attivo improvvisamente assunto da Cossiga nel dibattito politico, secondo uno stile azimutale a quello che aveva ispirato tutta la sua precedente carriera. Parole come “picconata” ed “esternazione” restarono così legate per sempre al furore declaratorio con cui il capo dello Stato, in maniera dissonante rispetto al coloristico interventismo di Pertini, si faceva parte attiva della vita pubblica secondo le tendenze presidenzialistiche che proprio Craxi per primo aveva avanzato come rimedio all’inefficienza delle istituzioni.
Nessuno aveva il coraggio di porsi sulla strada di Cossiga, anche perché l’uomo – divertito depositario di una sarditas venata di sfumature occulte e inaccessibili – lasciava capire di sapere molto, o almeno quanto bastava, di quasi tutti. Soltanto in quanto era stato scritto con inchiostro simpatico, quindi leggibile soltanto dall’autore, è così possibile riesaminare – uno per tutti – l’atto fondativo dell’escato-cossighismo: la proposta di grazia a Renato Curcio, tale da indurre il guardasigilli Martelli a sollevare un conflitto di attribuzioni alla Consulta. Un’iniziativa “scandalosa” in senso etimologico, perché tale da riaprire una ferita collettiva che nell’ex ministro degli Interni del sequestro Moro non si era mai chiusa.
Non c’è da allora enigma italiano – dalle circostanze della morte di Giorgiana Masi alla bomba di Bologna, da Ustica alla scia di sangue che parte da Piazza Fontana e arriva all’omicidio del commissario Calabresi – che non abbia avuto in Cossiga il solo possibile esegeta, tanto che la sua figura era arrivata a incarnare simbolicamente la vera scatola nera della Repubblica, sulla strada di un predecessore agli interni come Paolo Emilio Taviani.
Negli ultimi anni Cossiga era parso abbandonarsi a una crescente melanconia, contraddittoria con il suo spirito saturnino. Aveva architettato, rivendicandone in diretta le responsabilità, l’insediamento a Palazzo Chigi del primo presidente del Consiglio proveniente da quel PCI di cui era stato avversario e bersaglio, tanto da finire oggetto di una richiesta di messa in stato di accusa: col tempo aveva lasciato capire trattarsi di un tranello, troppo fine per ogni altra intelligenza dalla sua.
Consumato di malavoglia l’ennesimo té, Cossiga adesso attraversa lo specchio per consegnarsi alla Storia, senza lasciare a chi resta la parvola consolazione di averne almeno intuito la vera personalità. Egli stesso è stato il suo segreto meglio custodito, con la nostalgia inesaudita di essere un altro.

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