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Il bambino indaco: il bene e il male dell’amore

di Cecilia Mazzeo 
Indaco. Un colore di cui si parla poco. Difficile sentire qualcuno domandare: “Vorrei una sciarpa color indaco!” Solitamente si è circondati da varianti sul tema: lilla, violetto, fucsia, turchino. Eppure le parole sono importanti. C’è materia dentro le parole. Ci sono cose. C’è una specie di esattezza. È quella cosa lì, non un’altra.
Indaco. 55% di pigmento ciano e 45% di pigmento magenta. Le altezze del cielo coi suoi voli puri e nitidi e la vulnerabilità del sangue che pulsa. Che macchia. L’infinito e il finito mischiati insieme, il contatto tra due mondi che devono specchiarsi e dialogare. Un colore dunque che fa da ponte, messaggero di un qualcosa.
Indaco. Colorante prodotto da numerose piante nelle Indie, luogo per eccellenza di una spiritualità karmica, profondamente connessa alla Madre Terra e alle sue energie, alle scosse vibrazionali.
Mi domando se Marco Franzoso ha fatto la mia stessa ricerca sul colore prima di scrivere il suo ultimo romanzo Il bambino indaco, Einaudi. 132 pagine in cui si scivola. Si pattina sui ghiacciai oscuri della mente, si cerca aria perché la verità spesso lascia l’amaro in bocca, fa soffocare.
Cosa spinge una madre a trasformare la propria creatura nel prolungamento di carne delle sue ossessioni? Quant’è sottile il confine tra l’amore sano e l’amore malato? Quale vuoto o turba emotiva, quale dolore subito porta una donna a “disinfettare” il mondo, a sterilizzare con cura maniacale e rifiutare tutto quello che risulta impuro e tossico? Quale voragine si può aprire nella mente di una donna che ha appena compiuto il miracolo della vita e che, inconsciamente, per richiamare altra vita porta morte e disperazione, lacera il cuore dell’innocenza? Quale anoressia dell’anima può portare a quella fisica facendola subire anche a chi dovrebbe crescere? Difficile rispondere. Franzoso non ci dà le risposte,  ci accompagna con una scrittura priva di orpelli e sbrodolature ma capace di vivisezionare l’anatomia delle emozioni e delle compulsioni, nei sotterranei umidi e spettrali della fragilità umana. Toccherà a Carlo spiegare un giorno al figlio Pietro cosa voleva dire per sua madre Isabel essere un bambino indaco. Anche se Pietro probabilmente già lo sa. Lo sa ogni volta che guarda il cielo e saluta la mamma. Perché lui è un ponte. Una guida verso un nuovo mondo, una nuova era. Si legge tutto d’un fiato questo libro, col cuore in gola e un macigno sullo stomaco e una volta posato e digerito rimane dentro un interrogativo enorme: e se i bambini indaco possedessero davvero le chiavi di una nuova consapevolezza? Forse è questo il senso del 2012. Un colore che porta cose.
 
 
 

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