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"L'uomo in superficie" di Vittorino Andreoli

di Maria Rosaria De Simone 
È uscito da pochi giorni il nuovo saggio “L’uomo in superficie” dello psichiatra italiano Vittorino Andreoli, che davvero val la pena di leggere per la forza con cui viene consegnata ai lettori una seria analisi del vissuto dei nostri giorni.
Lo scrittore veronese, ormai settantaduenne, con una grande esperienza nel campo della psichiatria legata anche al mondo giovanile ed a casi di rilievo nel campo della giustizia penale, nel suo libro ha voluto tratteggiare le particolari caratteristiche dell’uomo moderno, che sempre più gli appare concentrato su tutto ciò che è visibile e che è puramente corporeo, nel costante inseguimento della bellezza, divenuta ormai l’unica religione da seguire. 
Lo psichiatra insiste molto, nel suo saggio, su questo aspetto che lo porta alla  considerazione che l’uomo viva in superficie, senza più preoccuparsi di quel che non appare, senza più andare al fondo di una ricerca esistenziale. In questo prepotente culto dell’Io, teorizzato da Freud e sviscerato in seguito in ogni sua sfaccettatura, l’uomo ha ucciso tutti gli dei, ponendo se stesso  e la propria bellezza, la propria perfezione al centro di una nuova religione.
Interessanti le parole di Andreoli, alla presentazione del libro al Festival della parola ad Aosta, il 30 aprile. Parole  che riassumono bene il tema del saggio: “L’uomo attuale mi fa pensare ad un palloncino di plastica con dentro il vuoto. Non si può ridurre tutto alla propria cute e alle sue forme.”
La preoccupazione dello scrittore deriva soprattutto dall’aver messo in rilievo la difficoltà che le vecchie generazioni hanno nella trasmissione di valori ai propri figli. Sembra quasi che i padri non riescano più ad insegnare  il valore dell’amore, destinando i propri figli ad una vita di solitudine, di vuoto, senza appigli, senza radici con le quali potersi sostenere.
E con una forte paura esistenziale. “Concentrati su un qui e ora puramente corporei -continua– abbiamo ucciso tutti gli dei e reso la bellezza l’unica nostra religione. Non abbiamo più sogni, non coltiviamo progetti, non sopportiamo il silenzio, facciamo rumore per vincere la solitudine, sradicati come siamo dalle nostre origini, incapaci di amare, di insegnare ai nostri figli e di imparare dai nostri padri. E siamo pieni di paura.”
Parole le sue, che riescono a focalizzare il problema dell’uomo moderno, insistendo su una analisi piuttosto spietata, senza però giungere a trovare una strada risolutiva per uscire da questo pantano esistenziale.
Lo scrittore infatti, non ha l’intenzione di dare giudizi né di offrire ricette adeguate, non propone una cura, ma insiste su una analisi spietata, senza nascondimenti e senza tralasciare le responsabilità umane.
Egli infatti ha come base di studio i casi che gli si sono presentati negli anni e che lo portano a considerare la depressione come frutto della paura di perdere o di non possedere quella bellezza così apprezzata, nei suoi canoni specifici, nel nostro tempo.
Lo sforzo di essere all’altezza di tali canoni, porta la persona a sottoporsi a qualsiasi mezzo, anche chirurgico. Questo riguarda sia i giovani, sia i meno giovani che inseguono un falso mito di giovanilismo imperante.
La superficie, l’apparenza: questo è il dio che ha sostituito ogni altra fede. Ma questo dio, che si nutre del presente, taglia le radici e dimentica il futuro, distruggendo sogni, speranze, e desideri veri.
In un costante inseguimento dell’oggi, si perde sempre più il significato dell’eternità, che diviene una parola priva di contenuti, nell’impossibilità di pensare ‘oltre’.
Un saggio, questo di Vittorino Andreoli, che val la pena di leggere per chiarire il male dell’uomo moderno che in molti hanno intuito e pensato e che aveva bisogno di un discorso organico e sistematico per poter intraprendere un percorso che aiuti ad uscire dalle catene che tengono oppresso l’uomo moderno, così chiuso in un soggettivismo esasperato che ha bisogno di ritornare ad una condivisione esistenziale e, soprattutto, di smettere di guardarsi l’ombelico.
Manca di sicuro in Andreoli l’ulteriore passaggio del volgere lo sguardo verso il cielo, uscendo dalla propria solitudine, eppure ogni parola, forse non volendo, sembra voler giungere alla ricerca di questa strada.
 

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