di Cecilia Mazzeo
20 maggio 2012. Bologna. Ore 4,04. Del mattino. Qualcosa mi sveglia all’improvviso. Il letto trema, sussulta, vagamente ondeggia, slitta sotto di me. Sento rumori, cose che sbattono dentro la terra. Sento una mandria di rinoceronti al galoppo che echeggia nelle pareti, nel soffitto, a destra, a sinistra, sopra, sotto. Il sibilo incarognito di uno strano serpente. Non lo vedi, ma ti circonda. Sento un brusio metallico, un borbottio dal cuore del mondo. È il rimbrotto della terra: sordo, pauroso, inquietante. Urlo, sì urlo. E mi alzo di scatto. Ci troviamo tutti nel corridoio. I bimbi stanno bene. Ho il cuore in gola, mi fischiano le orecchie, mi sento svenire. Ora l’aria puzza, ha qualcosa di marcio e putrefatto in grembo. C’è un clima strano. Spero che la Madonnina di San Luca…nel suo viaggio verso casa ci porti fiori e palloncini e da lassù, dal colle della Guardia, ci vegli e non ci molli. Velocemente, in uno stato tra lo shock e l’apatia, controlliamo la casa. Non ci sono crepe né ferite. Solo una bottiglietta di bagnoschiuma sbattuta per terra. Unica prova che non ho sognato. Scosto la tenda. Per strada non c’è nessuno. Mi convinco, per il bene dei bimbi, che è meglio ritrovare “una misura”.
La mia testa è ovattata. La parete di vetro d’irrealtà del terremoto mi separa dalle cose. Mi rimetto a letto, prendo i bimbi con me. Li veglio. Penso alla piccolezza dell’uomo e a quel ruggito feroce che ha sbranato il sonno. Il tremore continua ad avvolgermi come una coperta indisponente. Ho paura. Sì, una fottuta stramaledetta paura.
Mi alzo a mattina inoltrata. Mi dirigo subito verso la televisione. Ho fame di verità e cronaca. Devo capire, devo vedere quanto le fauci bramose hanno addentato. Scopro quello che non vorrei. Magnitudo 5.9 della scala Richter. La mia adorata Emilia perde brandelli di carne, di arte, di vita e cultura. L’epicentro tra Modena e Ferrara. 7 morti. Tanti feriti. Tantissimi sfollati. Chiese sventrate, torri cadute, campanili in bilico, castelli fantasma, case pericolanti e inagibili. Gioielli medievali perduti, ma soprattutto focolari di uomini donne e bambini oltraggiati nella loro intima quotidianità. Perché ognuno a casa propria pensa di essere nel luogo più sicuro del mondo. Invece no, non sempre. Di fronte a Madre Natura siamo come formiche sul marciapiede.
La giornata passa così. Tra telegiornali, altre infinite scosse, fortissima nausea, tachicardia, emicrania, spaesamento profondo. Mi sembra di aver perduto il centro di gravità. Forse è vero. Leggo da qualche parte che è giorno di eclissi anulare del sole. Insomma nell’aria c’è dunque uno strano rimescolo energetico, la “rivoluzione” che non hanno il coraggio di fare gli uomini. A partire dal loro cuore, dal loro ego, dalle loro bestemmie.
Ho paura che arrivi la sera. E poi la notte. Perché la notte divide e taglia.
Infatti non riesco a chiudere occhio. Il mio cuore corre la maratona di New York, galoppa sul cuscino. Ogni fruscio, dondolio, brusio, scricchiolio, stridio…mi fa sobbalzare. C’è un vento fortissimo che bussa e picchia, pioggia battente a infierire. Come solo una madre fa, veglio il sonno dei bimbi, “misuro” ogni rumore e respiro. Ovviamente mio marito russa. Io, invece, mi sento una costruzione smontata di Lego. Sono rimasta vestita in tuta pronta a scappare. Cerco di proteggere le mie cose più care: i miei figli, le mie parole. Mi sono accampata in una brandina di fianco al lettone dove ho messo i bimbi. Sul comodino il cellulare acceso, una chiavetta usb col mio romanzo, qualche torcia.
Guardo con rabbia e invidia il russare di mio marito, costretto da me a dormire su una poltrona ai piedi del letto. Un amico mi ricorda una scena del “Re Leone”, lo cito: “Il leoncino si sveglia e vuole giocare. Allora la leonessa con un occhio aperto dice al leone ” tuo figlio é sveglio” e lui “lo sai che fino all’alba è tuo figlio”. Anche dopo l’alba, aggiungo io. Nel sempre del cordone ombelicale. Così come siamo “nel sempre” del cordone ombelicale della matrix divina che, a volte, ci scuote. Sordi, disattenti e ciechi di fronte alle dolci parole. Figli imbranati e cialtroni.
Leggo su facebook post assurdi che farciscono il mio senso di spaesamento: “acidità ancestrale di Dio”. Per alcuni la colpa è di Dio. Un Dio cattivo e ingiusto che maltratta le sue creature. No, vi prego. Non così. Se proprio volete cercare una colpa, cercatela nell’uomo. Nella sua ottusità, nella sua fragile sporcizia, nella patina priva di luce del suo agire. Ma non mi piace parlare di colpe. La vita è anche questo. Esistono i terremoti. Le faglie che si spostano. Da sempre. Piuttosto abbracciamoci, camminiamo insieme mano nella mano verso un nuovo domani che faccia meno paura. Se stiamo insieme. Cuore a cuore.