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Ray Manzarek e Robby Krieger: un martedì psichedelico (non) come tutti gli altri

di Francesco Corbisiero
Tutte le reunion sono attesissime, da che mondo è mondo. Ma negli esiti esistono quelle ampiamente dimenticabili ( alcune anche deleterie ) e quelle che lasciano il segno. Come quella dei Queen o dei Police, nel primo caso, o come quella degli Stone Roses, nel secondo. E poi c’è un altro tipo di reunion: quelle che puoi anche farle, ma l’assenza dell’elemento chiave si fa sentire. Tipo i Doors.
In questo articolo infatti parleremo dei 4 ragazzotti californiani che un bel giorno s’incontrarono e diedero vita a quello che fu uno degli esperimenti musicali più leggendari e ancora oggi venerati del periodo che va a cavallo tra gli anni ’60 e i ’70. Motivo? Due dei reduci di quell’esperienza (Ray Manzarek e Robby Krieger ) erano ieri sera a Roma a offrire ancora al pubblico quelle canzoni che hanno portato loro, Jim Morrison e John Densmore al successo e nelle pagine di storia della musica grazie a quella combinazione di rock che si stempera furiosamente nel blues già sperimentato da Rolling Stones e Kinks e di ispirazioni psichedeliche che accompagnavano dal vivo e in studio i testi visionari di Morrison, frutto del suo amore viscerale per i poeti maledetti e la letteratura. Musica di grande lirismo, di liberazione, di narrazione della realtà e delle radici recondite che la muovono. Musica che prende dal rock la sua potenza e la forza sonora  e dal blues la raffinatezza stilistica. Musica dura a morire nei secoli dei secoli. E’ rock primigenio, purissimo. Trasognato, acido e americano.
Normalmente un’operazione come questa puzzerebbe di bruciato da lontano due miglia, e il sospetto è dietro l’angolo, complice il dissenso del batterista Densmore. Normalmente, chiunque dotato di senno si sarebbe accontentato dei fatti, della realtà come sta: i Doors non esistono più e Jim Morrison è morto (pace all’anima sua ) una notte a Parigi all’alba di quei Settanta che avrebbero visto il trionfo ( tramite i Pink Floyd, che la portarono al grande pubblico ) della musica psichedelica che lui stesso aveva inventato e contribuito a rendere grande, amen. Invece no,troppo semplice. Perché quando arrivo a Capannelle, l’Ippodromo è tutt’altro che vuoto e nonostante le voci del caso ( ‘I Doors erano Jim Morrison, che ci vai a fare? Lascia perdere…’ ) e oltre ai nostalgici di circostanza con la barba bianca, ci sono proprio un sacco di ragazzi, che erano più che stufi di ascoltare su cd o mp3 canzoni che avevano voglia di sentire dal pieno impeto di uno strumento violentato. Manzarek e Krieger sono straordinari, se la battono con Jagger e Richards per la forma che dimostrano nonostante la vecchiaia, per il piglio, per la voglia di fare ancora musica. E impreziosiscono tutto il repertorio con virtuosismi di tastiera e chitarra che solo chi maneggia il ferri del mestiere può permettersi, dando vita nuova a grandi classici come ‘People are strange’, ‘Riders on the storm’, ‘L.A. Woman’, ‘Roadhouse Blues’, ‘Touch me’, ‘Love me two times’, ‘When the Music’s over’, ‘Break on trough ( to the other side )’ e per finire (immancabile ) ‘Light my fire’ e la voce di Dave Brock ( incredibilmente simile a quella baritonale e affascinante di Morrison, la cui somiglianza anche somatica non può passare inosservata ) scolpisce nella serata le poesie del Re Lucertola,  morto troppo giovane ma non troppo presto da non far sì che noi ci dimenticassimo di lui, anzi. I due invece se la intendono alla grande, c’è forte complicità, si sente. E’ come se, se solo Jim non fosse sotto tre metri di terra al Pere Lachaise e non fossero in corso dispute legali sul nome del gruppo con John, i due suonassero senza uno ieri e senza un domani. Come se un tempo, davvero, non ci fosse mai stato per loro, perché è la musica a renderli vivi..
Il concerto fila via così, tutto d’un fiato, come può andar giù in pancia una birra fredda in una serata afosa come questa. C’è da rimanere a bocca aperta, le lunghe suite strumentali a corredo non si contano e la maestria dei due compagni di Morrison toglie la polvere e sgranchisce le articolazioni a canzoni scritte la bellezza di 40 anni fa e ancora così capaci di unire e sciogliere in un canto collettivo generazioni di ragazzi, accompagnare la loro rabbia e i loro paradisi artificiali. E’ la storia, baby, che ti prende e ti porta per mano dove la tua puzza sotto il naso non ti farà andare mai, tra le pieghe di un periodo così diverso da quello attuale, un periodo in cui era il contenuto che importava davvero, non chi lo divulgava. E’ vero, non sarà mai come se ci fosse Jim Morrison, sarebbe tutto molto differente. Ma la lezione di stasera è una: la Musica, l’Arte, sopravvive a chi la crea. E chi è troppo attaccato al music-business, ai formalismi, alla cronaca musicale di bassa lega, all’idolatria dei front-man o dei singoli elementi di un gruppo ( una band dev’essere molto di più della somma delle sue singole parti, se vuol essere veramente grande e se ancora non l’avete realizzato forse fareste meglio a darvi all’ippica ), questo non può capirlo ed è difficile che accada. La lezione di stasera la riassume quell’anziano che, accanto a me, aveva portato suo nipote ( che non avrà avuto nemmeno 5 anni ) ad ascoltare le canzoni della sua giovinezza, quando sognava gli Stati Uniti e la prospettiva di un mondo migliore era a un passo, per tramandagliele. Manzarek e Krieger hanno fatto la stessa cosa, regalando a una generazione nipote della loro i loro inni. E li potrete chiamare ‘vecchiacci’, ‘cadaveri’, ‘cariatidi’ e ‘matusalemme’ ( ma dopo i Cure che l’altra sera hanno messo in piedi nello stesso posto 12.000 persone, ho come l’impressione che tutta la vecchia guardia del rock, dagli anni ’60 agli anni ’80, malgrado l’età sia ancora capacissima di seppellire senza troppo sforzo le schiere di giovani promesse ), ma hanno avuto di sicuro più classe di voi. Oltre al talento. Ma quello, chi osa discuterlo?
Foto gentilmente concesse da Rodolfo Sassano

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