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Il caso Ilva

di Mariano Colla
In un’estate rovente, laddove, sino a qualche anno fa, gran parte degli italiani andavano tranquillamente in vacanza, si manifestano gli aggressivi colpi della speculazione finanziaria. La politica fa quel che può per tamponarne gli effetti, i mercati sussultano e le attività produttive segnano il passo.
In questo quadro, già drammatico di per sé, esplode, in tutta la sua gravità, il caso dell’Ilva di Taranto.
La magistratura, con un intervento formalmente corretto, sanziona il sequestro dell’azienda e il relativo stop delle attività, a causa del reiterato manifestarsi di emissioni di sostanze tossiche nell’ambito dei processi di produzione dell’acciaio, sostanze particolarmente nocive per la salute dei lavoratori.
Sostanze inquinanti e polveri sottili che incombono sugli impianti dell’azienda e sull’hinterland tarantino, con effetti mortali sulle maestranze e le loro famiglie.
A un giudizio di merito l’intervento della magistratura sembrerebbe quanto mai appropriato.
In realtà l’effetto, non trascurabile, di tale intervento è la sospensione dell’attività lavorativa, con evidenti impatti sull’occupazione in un’area del mezzogiorno, dove avere un lavoro rappresenta la sopravvivenza.
Le maestranze sono entrate in sciopero per manifestare il loro dissenso. L’arresto delle attività dell’Ilva implica il rischio del posto di lavoro e, in un momento come questo, il posto di lavoro è più sacro che mai.
Nel riproporsi della controversia tra salute e lavoro, requisiti ambientali e occupazione, riemergono le contraddizioni di una società produttivistica e consumistica che non ha saputo trovare una risposta definitiva a un concetto di sviluppo in grado di tutelare  interessi commerciali e  salvaguardare, al contempo, condizioni di lavoro accettabili.
La crisi economica ha ulteriormente peggiorato tale contrasto e l’ipotesi di una crescita futura rimane tuttora priva di fondamento.
Sorprende, tuttavia, che ancora nel 2012, in uno dei più grandi impianti produttivi del nostro paese, si verifichino situazioni di degrado ambientale di tale gravità, senza l’emergere di segnali preventivi che, opportunamente monitorati, avrebbero probabilmente consentito interventi meno invasivi per l’occupazione locale.
Quindi la domanda che è lecito porsi è perché la gestione dell’Ilva non è stata oggetto, da parte delle istituzioni di azioni propedeutiche, tali da ridurre l’impatto delle sostanze inquinanti senza ricorrere all’arresto totale dell’attività produttiva.
Non è infatti un mistero che molte attività industriali in Italia  e non solo, sono causa di pericolose emissioni (vedi diossina), soprattutto nei settori legati alla raffinazione del petrolio, alla metallurgia, alla siderurgia e alla chimica.
I casi di Porto Marghera e Italsider sono emblematici.
L’Ilva non sfuggiva a tale categoria.
L’intervento della magistratura sembra collocarsi fuori tempo massimo.
Salvaguardare la salute degli operai dell’Ilva rischia di avere un prezzo molto alto: la perdita del posto di lavoro.
A meno di revisioni e accordi che fanno parte di una dialettica ex post, tipica del nostro paese, il sequestro dell’Ilva viene pagato con il licenziamento della forza lavoro.
I giornali riportano interventi degli operai quali “i giudici avranno anche ragione, ma con questa sentenza  fanno male a noi, non al padrone. Lui fa la valigia e se ne va”.
Riappare la nota diatriba tra padrone e operaio che non considera, tuttavia, le omertà e le corruzioni proprie di forze istituzionali che hanno voluto ignorare la situazione sino al punto di tracollo, traendone vantaggi economici e clientelari.
L’Ilva opera nell’area di Taranto da molti anni. Gli effetti ambientali della attività dell’azienda erano visibili a tutti, alle maestranze che forse sapevano, ma che non osavano denunciare, e il corpo responsabile che non solo sapeva ma aveva evidentemente i mezzi per proseguire nell’illecito, perché l’emissione di sostanze gravemente nocive alla salute è un illecito.
Insomma dubito che qualcuno potesse dire facilmente: ma io non sapevo.
I lavoratori dell’Ilva si trovano ora dinanzi a un improponibile dilemma: accettare un ipotetico miglioramento delle condizioni ambientali con benefici propri e delle famiglie e, nel contempo, mettere in cantiere la perdita del lavoro, in attesa di una bonifica della società, attività dai tempi imprevedibili.
Inchieste, denunce, reportage sono all’ordine del giorno, fanno spesso parte dei nostri ”talk show”, pur tuttavia la difesa degli interessi di molte aziende, in combutta con frange corrotte della politica, e la lentezza nelle sanzioni da applicare nei casi più gravi, conducono spesso alla “chiusura della porte della stalla quando i buoi sono già fuggiti”.
Tali dinamiche determinano interventi estemporanei, non graduali, dagli effetti socialmente devastanti, come appunto il caso dell’Ilva, dove i lavoratori lottano per il posto di lavoro, pur sapendo che lo stesso può essere causa di mali ben peggiori.
La direzione dell’Ilva è stata adeguatamente monitorata nei  piani di sviluppo della società dalla stessa magistratura che ora ne ha determinato il sequestro giudiziario? Quali sono stati gli elementi che hanno determinato l’attuale intervento e perché solo ora?
La crisi economica e la necessità di combattere una concorrenza sempre più agguerrita, e spesso non corretta, possono avviare circoli viziosi che, unitamente all’ingordigia del profitto, trascurano i principi di una sana gestione aziendale.
L’effetto di tutto ciò è una battaglia per la sopravvivenza che in un paese come il nostro, grande potenza economica mondiale, non si dovrebbe più porre, perlomeno in questi termini, dove l’operaio deve scegliere la “morte” più dolce.
Su “La Repubblica” il governatore della Puglia Niki Vendola sostiene che con il caso Ilva finisce un’epoca, ossia quella in cui la salute della gente  e la tutela dell’ambiente avevano un posto marginale rispetto al dio profitto.
Tuttavia coniugare benessere ed occupazione sembra quanto mai difficile in un momento di stress economico così rilevante.
E’ certamente un obiettivo da campagna elettorale, che verrà sfruttato dalla retorica politica. La sua realizzazione è sacrosanta, ma ricordiamoci che non ha sempre funzionato, anche nei periodi più floridi della nostra economia, figuriamoci ora, in cui la priorità del posto di lavoro fa mettere in secondo piano ogni altra istanza.
Sono questi i mali imputabili a qualche distorsione di sistema, a qualche imprenditore, diciamo disattento, oppure sono i colpi di coda di un sistema economico basato sulla pura economia di mercato?
Sono certamente mali che ci permettono di gettare lo sguardo su questo nostro mondo malato e di riflettere sugli effetti di una corsa che dura da 50 anni, da quando abbiamo tutti pensato che la crescita potesse essere infinita.
Sono mali che ci devono far riflettere, per affrontare le sfide, davvero fondamentali per la nostra società, sul piano di valori irrinunciabili come libertà, giustizia ed equità.

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