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Le contraddizioni degli italiani

Mariano Colla
Il 17 febbraio 1992 iniziava la stagione di “mani pulite” e, per quasi quattro anni, la classe politica italiana fu messa sulla graticola da una solerte magistratura e da un’opinione pubblica che, sollecitata dall’incalzare delle cronache, era preda di un impeto giustizialista e di un furore revanscistico. Sembravano esserci le premesse per la formazione di una nuova classe politica in grado di attenersi a una maggiore pulizia morale che implicasse onestà, giustizia, e, in generale, il consolidamento di un’etica di governo.
La “Milano da bere”, slogan di quei tempi, indicatore di un bel vivere un po’ sopra le righe, avrebbe ceduto il posto, secondo il desiderio di molti italiani, a una nuova classe dirigente, in grado di incorporare aspettative tese a ripulire il marcio che da tempo aleggiava sull’Italia dello spreco e dell’allegra finanza.
Sembrava essersi diffusa la sensazione che un ciclo era definitivamente tramontato, lasciando altresì lo spazio a un nuovo percorso politico e istituzionale in grado di risintonizzarsi con le esigenze economiche e morali delle classi popolari, un nuovo percorso in grado di fornire benefici distribuiti sul lungo periodo.
Mani pulite aveva dato il là a un movimento di protesta che, pur con alcuni errori dovuti ad eccessi di giustizialismo, sembrava aver posto le basi per sradicare parte del malaffare che aveva inquinato la nostra repubblica.
Gli italiani, sorprendentemente, si ergevano a supremi accusatori dei loro rappresentanti politici, eletti per lustri, manifestando in piazza dissapori spesso celati. Chi non ricorda il lancio delle monetine a Craxi dinanzi all’hotel Raphael? Ormai fa parte della nostra storia.
Sennonché sono trascorsi 20 anni da quei fatidici giorni e, ripercorrendo il tragitto seguito dalla politica italiana in questo lasso di tempo, se ne trae la convinzione che di quell’ottimismo iniziale, di quelle presunte buone intenzioni se ne siano perse per strada tutte le tracce.
Fanno ormai parte della cronaca quotidiana casi emblematici che evidenziano il protrarsi di fenomeni di malgoverno, la cui origine è sufficientemente lontana per azzardare l’ipotesi che, nonostante i buoni propositi, la politica italiana non sia, moralmente, cambiata gran che dagli episodi di mani pulite. Ciò che dovrebbe preoccupare è la diversa reazione popolare rispetto ad allora. Sembra quasi sia subentrato uno stato di assuefazione che appanna reazioni e proteste, allorché ci si adagia sull’ineluttabilità degli eventi.
La società non sembra più credere in se stessa dinanzi al progressivo declino di una democrazia rappresentativa così gravemente inquinata.
Il malaffare politico, la corruzione, lo spreco del denaro pubblico, gli intrighi di palazzo balzano, da tempo, all’attenzione della cronaca. In un vortice di illegalità vengono coinvolti partiti e personaggi politici, e il popolo distratto dai problemi economici, legati alla crisi incombente, si astiene dall’esprimere preferenze elettorali o rischia di affidarsi a pericolosi retori o a forme di suadente populismo.
Nel frattempo, il denaro pubblico viene sperperato da deputati, senatori, consiglieri, ministri, come usava nell’antica Roma poco prima che i barbari la invadessero per porre termine al suo grande impero.
Domanda: che cosa ha impedito al complesso panorama istituzionale italiano di dare corso a quel progetto di rinnovamento etico e morale così fortemente evocato dall’opinione pubblica alla fine di mani pulite?
Siamo sicuri che le scelte fatte da noi italiani 20 anni fa sono state coerenti con il desiderio di pulizia, giustizia, onestà della classe dirigente che avrebbe dovuto governarci? Siamo stati sufficientemente attenti nello scegliere i nostri leader, nel seguire l’evoluzione politica del nostro paese o abbiamo ciecamente delegato il potere, preda, come spesso siamo, di sogni e aspettative, la cui credibilità poteva essere facilmente verificata?
Quando il modello del liberismo esasperato e senza frontiere è diventato lo schema di riferimento economico, sociale, etico e morale, del nostro paese, sarebbe stato opportuno porsi la domanda se tale modello era coerente con la nostra storia, con le nostre sensibilità, con i nostri valori.
L’abbuffata di liberismo comportava, per un’Italia che al liberismo “tout court” non era abituata, l’impennata delle operazioni finanziarie, della speculazione e un surplus di liquidità, leve, queste, dall’effetto moltiplicatore sul potere economico e dal conseguente aumento della criticità del sistema normativo nel gestirne gli abusi.
Vi è una costante dicotomia tra il piano normativo e l’attività empirica in merito al governare. Il piano normativo ha una sua autonomia rispetto al piano empirico e la distanza tra i due dipende molto dagli errori, dagli abusi e dalle malefatte perpetrate dall’uomo nel governare.
Dalle facili lusinghe della finanza e dal denaro facile sono stati attratti governanti, portaborse, amici degli amici e così via, tutti alla ricerca di un uso indiscriminato di soldi pubblici per il proprio interesse privato. Purtroppo nell’acquisizione della ricchezza vi è, spesso, un fattore di corruzione.
Oggi molti italiani sono alle corde. La crisi crea indigenza, disoccupazione, alimenta la sindrome del fine mese, mentre, sugli scranni del potere, allegre brigate si spartiscono il bottino e dalla “Milano da bere” siamo pervenuti alla “Roma ostriche e champagne”. Confraternite familiari, frequentatori di nobili salotti e studi televisivi si avventano, in stile trimalcionesco, sul denaro pubblico per pagarsi e mantenersi il potere. Nella loro chiassosità mediatica e indifferenza sembrano evocare l’infelice frase di Mitt Romney, candidato repubblicano alla Casa Bianca, secondo cui del 47% degli americani poco abbienti non gliene importa nulla.
E allora, quando al termine di mani pulite si richiedeva rigore, cosa si intendeva in realtà?
L’italiano era realmente pronto a difendere i propri diritti e aveva la capacità culturale per saper scegliere e poi controllare i propri rappresentanti politici, o era schiavo della retorica dei nuovi sofisti della “nouvelle vague”, laddove la capacità di persuasione del politico oscurava mete e orizzonti di giustizia sociale?
Forse l’italiano è un po’ ingenuo e sognatore, ma l’italiano è anche ciò che Michele Serra propone ne “La Repubblica” con riferimento al caso Fiorito, ossia che esso è parte di un processo di osmosi tra casta e popolo in cui c’è un costante passaggio di consegne e dove le responsabilità del malgoverno sono frutto di un perverso intreccio di interessi privati tra eletto ed elettore. L’italiano presenta ancora caratteristiche troppo contraddittorie per affidargli una funzione moralizzatrice della politica. I valori e i principi di uno Stato si radicano nel popolo solo attraverso un lungo processo culturale ed educativo che, a mio avviso, è ancora parzialmente incompleto per noi italiani.
Dobbiamo superare le lusinghe della retorica, quest’arte declamatoria che Platone condannava con forza, in quanto era un’arte manipolatoria, atta a dare alla realtà vesti soggettive secondo lo schema dell’oratore.
Platone non amava la democrazia, forse perché intuiva quale cattivo uso il potere ne avrebbe potuto fare. La considerava un forma in cui il potere adulava il popolo, assecondandone le pulsioni irrazionali e morbose, invece di preoccuparsi di gestirlo con una cura rigorosa attraverso la quale guadagnarsi il suo favore. Considerava la democrazia essenzialmente demagogia, seduzione e mistificazione dell’opinione popolare.
Giudizio eccessivamente negativo? Il quesito è tuttora aperto.
Il desiderio di avere di più, prevaricando sugli altri e violando le leggi comuni, la brama di potere e di successo assoluto, la pleonexia, come la chiamavano i greci, tuttora permea parte della nostra politica, ma attenti allo scarico di responsabilità quando si danno le deleghe in bianco, ovvero si è in qualche modo coinvolti con il sistema.
Nella “Repubblica” di Platone, Trasimaco, valente sofista e mago della retorica, subordinava il concetto di giustizia all’utile del governo al potere, sostenendo che è giusto fare il bene agli amici e il male ai nemici, oltre a ribadire che il giusto non è altra cosa se non l’utile del più forte. Certamente Trasimaco non immaginava che le sue parole avrebbero trovato ancora conferma 2500 anni dopo, nonostante gli sforzi di Platone indirizzati a creare la Repubblica dei filosofi.
foto: Paperblog

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