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L’insuccesso di Doha e l’insensatezza umana

di Mariano Colla
“Doha, porta di entrata per un futuro infernale”, così, “Il Manifesto”, intitola un proprio articolo sull’ultima conferenza tenutasi in Qatar sui temi riguardanti il clima e l’ambiente.
Continua il giornale: “È mancata la volontà politica di ridurre drasticamente i gas serra (Usa in testa). Insoddisfatte le richieste che chiedevano ai paesi ricchi di aumentare i fondi per sostenere i paesi in via di sviluppo”.
I grandi della terra un’altra volta hanno, pervicacemente, detto no.
Il fallimento della conferenza di Doha sul clima ripropone, purtroppo il tema dell’insensatezza, per non dire stupidità, umana.
I nostri saperi e il nostro impressionante potere tecnico non vengono messi a disposizione per ridurre la vulnerabilità del pianeta, bensì per depauperarne le residue potenzialità.
Stati Uniti, Cina e India che, da soli, fagocitano e inquinano più del 50% delle risorse del pianeta, non hanno assicurato quello scatto di responsabilità atteso da molti, ma purtroppo, irresponsabilmente, hanno perso un’altra buona occasione per migliorare il destino di un sempre più ampio spettro di sistemi biofisici.
A partire dal 1973, con il rapporto “I limiti dello sviluppo” del Club di Roma, il radicale evolversi dei problemi ambientali del pianeta Terra è stato posto all’attenzione dei politici e dei poteri decisionali senza sortire nessun effetto significativo.
Preda di una ingiustificata bulimia consumistica l’umanità sta orientandosi verso una tragedia ambientale, incapace come è di innescare quei processi razionali che dovrebbero metterla in guardia da atti non opportunamente meditati.
Sembra che l’irresponsabilità abbia il sopravvento e accechi parte dell’umanità, protetta come è da un modello di vita che non prevede flessioni e ripensamenti.
Comodamente adagiata in una società ricca e opulenta, quell’umanità che comanda il mondo esclude e marginalizza evidenze per un puro calcolo di convenienza.
E’ inutile richiamare all’attenzione l’innumerevole mole di rapporti che in questi decenni sono stati presentati ai padroni del mondo al fine di metterli in guardia sugli effetti delle loro decisioni, nel sensibilizzarli sugli invalicabili limiti del nostro pianeta, nel renderli consapevoli di un ecosistema sempre più in difficoltà nel corrispondere alle fameliche esigenze dell’uomo moderno, animato dall’irrefrenabile ambizione di dominare la natura e di porla definitivamente al suo servizio, senza cura e senza rispetto.
L’umanità si trova quindi dinanzi a una crisi di sostenibilità ambientale.
Situazione in qualche modo paradossale, in quanto si attua con una evidente contraddizione: da un lato abbiamo un ecosistema in progressivo degrado, dall’altro l’ansia di miglioramento e di costante rinnovamento dell’uomo che si conforma a stili di vita condizionati da un consumismo sfrenato, certo di possedere i mezzi scientifici, tecnologici e sociali per permetterselo.
Il paradosso, tuttavia, non è stato percepito né dalla gente comune né, tanto meno, dai governanti, o dalla politica responsabile. Non sembra far parte della cultura contemporanea il concetto di bene comune, bene da salvaguardare al fine di salvaguardare noi stessi.
Nella lotta tra il Nord e il Sud del mondo, tra chi ha avuto e continua ad avere e tra chi non ha mai avuto e aspira ad avere, sono ancora lontane ipotesi in grado di mediare tra le diverse esigenze. Chi ha, difficilmente è disposto a cedere i propri privilegi, a meno di una evidenza contraria, ossia che il mantenerli abbia un costo esistenziale non più sostenibile.
Doha ci insegna che Stati Uniti, Cina e India non sono assolutamente disposte a rinunciare ai propri modelli di crescita e di consumo, pur consapevoli dell’effetto devastante delle loro politiche.
L’Europa, unica struttura la cui etica politico-economica è in qualche modo sensibile ai problemi di sostenibilità del pianeta ha, purtroppo, una voce flebile e poco coesa. Gli effetti si manifestano in una rappresentanza mai sufficientemente forte e compatta.
Che i cambiamenti climatici siano evidenti non sfugge più a nessuno. Nel nostro piccolo viviamo la progressiva tropicizzazione dell’Italia e dell’area mediterranea, laddove primavere e autunni sono scomparsi, nubifragi e trombe d’aria sferzano la penisola come nei Caraibi.
In assenza di una convergenza politica che ispiri soluzioni idonee si naviga a vista e ci si avvia, come dichiara la frase d’apertura dell’articolo, verso un futuro infernale.
Un prezzo che pagheranno le future generazioni, generazioni molto prossime a noi, visto che gli orizzonti temporali di possibili catastrofi ambientali si attestano, presumibilmente, intorno al 2050.
Interessi privati e desiderio di potere sono componenti che investono i centri decisionali del pianeta, a scapito di una maggior attenzione all’interesse globale, obiettivo quanto mai necessario da perseguire in un orizzonte di salvaguardia della Terra.
Nel momento in cui l’uomo ha abbandonato la relazione originaria con la natura e ne ha fatto strumento di consumo e di irrazionale godimento ha, con ciò, decretato la fine di se stesso, convinto che la tecnica avrebbe fornito i mezzi per mantenere invariato il rapporto con l’ambiente e i suoi ritmi.
Con tale scissione l’uomo ha smarrito la componente filosofica che valorizzava il suo rapporto con il mondo naturale, privandosi di una dimensione che lo vedeva in equilibrio armonico con il mondo stesso.
Facendo del pianeta una grande miniera a cielo aperto e dell’aria un ricettacolo di veleni, l’uomo ha abbandonato un rapporto culturale con la natura, esasperando la relazione soggetto-oggetto, ampliando a dismisura una visione funzionale e strumentale dell’ecosistema.
L’uomo ha inoltre rinunciato a una visione trascendente della Terra, vista come creato e, quindi, come perpetuazione della vita, fatta dei frutti della natura, partendo dal pane quotidiano della celebrazione cristiana e dal lavoro della comunità.
Natura che oggi viene spessa interpellata come ecosistema, ossia come flusso di materia ed energia necessario alla vita e alla sua organizzazione e struttura.
L’esigenza di insistere su una politica della natura al fine di edificare un ambiente sostenibile non è più un gioco per pochi esperti, ma è un tessuto indispensabile per reggere le nuove sfide culturali, economiche e legislative connesse alla diversificazione delle fonti di approvvigionamento energetico, dall’economia petrolifera al futuro delle rinnovabili.
Non si può più ignorare il fatto che le trasformazioni in atto richiedono responsabilità inedite, sia per quanto riguarda le scelte private che quelle pubbliche.
Con ciò è determinante stimolare una riflessione sugli strumenti giuridici più adeguati alla gestione delle nuove frontiere della natura umana.
L’insuccesso di Doha ci pone nuovamente dinanzi alla drammaticità di uno scenario che le conferenze di Kyoto e Rio de Janeiro, con i relativi protocolli, sembravano aver attenuato, grazie alla sensibilizzazione dell’apparato politico e industriale mondiale.
Pertanto, per dirla con Bauman: “il nostro futuro è ancora in bilico, così come le opzioni aperte a tutti noi che lo abbiamo a cuore. La giuria è ancora riunita ma ormai è ora di rientrare con il verdetto. Quanto più a lungo la giuria resta riunita tanto più grande sarà la probabilità che sia costretta a scappare dalla camera di consiglio, perché sono finite le bibite fresche”.

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