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Il fascino di una fumata

di Mariano Colla
Le immagini televisive che martedì scorso hanno documentato la nomina del nuovo Pontefice, facendone un evento planetario, hanno dato notevole rilevanza all’imponente partecipazione popolare in Piazza San Pietro, testimonianza di un ardore fideistico che colpisce per intensità e adesione.
Immagini che, peraltro, pochi giorni prima, mostravano analoghe partecipazioni di massa, che hanno avuto luogo nel corso delle recenti dimissioni del Pontefice Benedetto XVI e, prima ancora, altre forme di raduno, sollecitate da analoghi importanti eventi di natura religiosa.
Decine di migliaia di persone in Piazza San Pietro hanno seguito con trasporto, interesse e commozione, pur sotto una pioggia battente, uno degli eventi cardine del cattolicesimo, facendo trasparire quel legame con la funzione simbolica che la religione sa evocare, grazie a una ritualità antica, ricca di tradizione, che determina una mistica collettiva dai risvolti socialmente straordinari.
Straordinari non tanto nel senso di risvolti anomali, quanto possibili dimostrazioni di una contingenza o, forse, ancor più, della necessità di condividere collettivamente, in un “qui e ora”, forti suggestioni che, nella fattispecie, riguardano la fede religiosa ma, non necessariamente, si limitano ad essa, quasi a voler rimarcare la ricerca di valori comuni, nello spaesamento valoriale ed emozionale dei nostri tempi.
Pur nel riconoscere l’effetto mediatico determinato dal coinvolgimento di piazza, sembrerebbe tuttavia farsi sempre più spazio un mutamento nelle modalità in cui i fedeli si relazionano con la religione, nelle sue varie articolazioni simboliche, rituali e liturgiche.
Non è infatti una novità che, soprattutto nella vecchia Europa, le chiese, per esplicita dichiarazione delle autorità ecclesiastiche, vedono diradarsi le presenze dei fedeli alle funzioni religiose e che, inoltre, le vocazioni sono in rapida decrescita.
In altri termini i canali tradizionali attraverso cui la funzione pastorale si è da sempre espressa sembrano indicare una partecipazione via via più ridotta da parte dei fedeli, quasi a voler sottolineare un certo distacco di questi ultimi dalla ritualità corrente, a favore di una adesione più sentita a grandi testimonianze collettive.
Infatti, ogniqualvolta la religione diventa evento mediatico, spesso con connotazioni storiche, le masse dei fedeli rispondono con entusiasmo e partecipazione, laddove la presenza all’evento stesso non è solo testimonianza di fede ma, soprattutto, necessità di condividere l’atmosfera che l’evento stesso, vissuto collegialmente, produce.
La religione è una sorta di repertorio di simboli, alcune volte più vivi e ricchi di significato, altre volte più deboli e decaduti, in ogni caso portatori di un valore che eccede le capacità della ragione.
Se sia il contenuto spirituale a muovere le masse verso imponenti adunate collettive o se, in tale adunate, sia rilevante il numero dei semplici curiosi o dei presenzialisti, non è dato sapere ma, certamente, non si può ignorare la forte evocazione simbolica prodotta da occasioni irripetibili in cui, più della fede, gioca un ruolo fondamentale l’esperienza comunitaria.
Visti quindi il successo di tali manifestazioni di massa e il corrispondente affievolirsi del rapporto con la ritualità tradizionale espletata da chiese, parrocchie, etc., laddove la religiosità si propone in una dimensione forse più intima, è spontaneo chiedersi quale spazio abbia ancora la fede vissuta nella dimensione individuale, quanto la fede si espliciti nell’intimità di una relazione personale con Dio, o quanto, invece, essa si esprima nella partecipazione ad eventi dalla forte dimensione mediatica che assicurano un sensibile coinvolgimento emotivo, generatore di forza e fiducia, oltre a un senso di appartenenza alla collettività.
Se, effettivamente, mutano le esigenze del fedele, oltre a un insindacabile segno del tempo che ha elevato la mediaticità e la spettacolarità a sistema, le ragioni di un tale mutamento potrebbero essere ricondotte a un desiderio di novità, di trasparenza che le istituzioni ecclesiastiche tradizionali hanno difficoltà a garantire, come in qualche modo gli scandali recenti hanno dimostrato.
Se il fedele vuole individuare nuove forme di comunicazione all’interno della comunità religiosa, ciò può anche dipendere dalla ricerca di una maggiore purezza nel dialogo, dal ritorno a un messaggio originario, dal superamento di una parte della ritualità, avvertita come non più attuale.
I paradigmi comunicativi del mondo contemporaneo, sempre più massificanti, creano l’illusione di valorizzare l’individuo, ma esso, paradossalmente, soffre sempre di più la propria emarginazione, e allora cerca risposte di senso nell’alveo di una collettività che non vuole fraintendimenti ma, almeno per quanto riguarda la dimensione religiosa, il verbo nella sua purezza originaria.
La religione non è qualche cosa che ha solo un valore d’uso, in essa vi è mistero e sovrasensibile.
Sovrasensibilità e mistero sono alimentati da una dimensione mediatica che emoziona le masse e ne cattura le pulsioni collettive.
Anche se chiese e parrocchie costituiscono centri di aggregazione rionale, manca in esse quella dimensione spettacolare di cui oggi, volente o nolente, la gente sembra avere bisogno per uscire da una dimensione anonima e qualunquista.
Ed ecco i grandi raduni giovanili a cui Giovanni Paolo II, maestro nella gestione della comunicazione mediatica, seppe dare particolare impulso, ritrovando in quella spettacolarità la forma più efficace per veicolare il proprio messaggio di gioia, prima, e di sofferenza, poi.
La religione, quindi sembra diventare sempre più un fatto pubblico, un fatto liturgico, un insieme di forme e abitudini condivise e regolate. Se la religione è ancora un fatto privato, lo è solo perché l’esteriorità dei riti e dei miti stimola, a volte, la ricerca di uno spazio ulteriore che la dimensione pubblica non è più in grado di accogliere, spazio che si può concretizzare solo all’interno della nostra dimensione psicologica.

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