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HomeIn primo pianoPsicopatologia del "copia e incolla", ovvero l'arte di mistificare le altrui verità

Psicopatologia del "copia e incolla", ovvero l'arte di mistificare le altrui verità

Anni fa un filosofo italiano fu pescato ad aver copiato mezza pagina di un collega straniero. L’incriminato si difese dicendo che erano cadute le virgolette. Alla luce di quel che accade oggi e della tecnologia disponibile per il plagio era un povero untorello: copiare a macchina mezza pagina gli costò un tempo mille volte maggiore di quello necessario oggi per copiare e incollare 1000 pagine. Quando si diffusero i personal computer dissi a un amico che era un’opportunità per scrivere di più e meglio. Rispose, a ragione, che era un guaio perché sarebbe cresciuta la massa di scritti inutili, il plagio sarebbe diventato una prassi e a scuola nessuno avrebbe più studiato e pensato. Un’insegnante mi scrive che, per aver rimproverato uno studente reo di aver costruito un compito copiando in rete, si è sentita rispondere: «A professoré, sta già tutto lì, che senso ha fatica’?». E anche gli insegnanti si adattano. In una classe si assegna una ricerca a tema: un gruppetto legge, studia e compila a mano un cartellone; un altro copia e incolla da Wikipedia e lo fornisce elegantemente stampato. Al primo un 7, al secondo un 9. D’altra parte, come resistere se mezzo mondo copia e incolla, i ministri vantano il digitale come la pietra filosofale e il cattivo esempio viene dall’alto? È una valanga. Due anni fa il ministro della difesa tedesco zu Guttenberg si dimise per aver copiato la tesi di dottorato. Due mesi fa, si è dimessa la ministra dell’istruzione tedesca Schavan, sempre per reato di copia-incolla, allungando una lista che comprende europarlamentari, ministri e il presidente ungherese. Ora è costretto a dimettersi il Gran Rabbino di Francia, Gilles Bernheim. Ha millantato un’inesistente agrégation in filosofia, ha spacciato come suo un libro di “meditazioni sull’ebraismo” di Jean-François Lyotard, ha rubato brani di un sacerdote cattolico, Joseph-Marie Verlinde, per il suo manifesto contro il matrimonio gay, e via copiando. Non solo recidivo ma sfacciato, ha tentato di far credere che fosse stato Lyotard, che dalla tomba non può difendersi, ad averlo copiato… E, dopo aver gettato discredito sulla sua elevata funzione, ha tentato persino di non dimettersi.
Quando la demenza dilaga è come un sostanza oleosa che si insinua dappertutto. Così, tra i commenti critici si leggono propositi insensati. Secondo alcuni, il plagio confuterebbe le tesi copiate. Difatti, se uno copia Aristotele o Kant vuol dire che sbagliavano loro… Il povero Lyotard oltre a vedere le sue tesi copiate le vede anche falsificate. Jean-Noël Darde, che da anni insegue i “copia e incolla”, ha sostenuto una tesi ardita: il fatto che parte del testo di Bernheim contro il matrimonio gay sia ripreso da scritti di padre Verlinde “macchia” la Chiesa. E perché mai? Se mai, andar d’accordo con le tesi di Verlinde-Bernheim è una prova di coerenza. Né si vede perché i rabbini, tra cui diversi italiani che hanno detto le stesse cose di Bernheim prima di lui, dovrebbero scomporsi: le loro idee sono quelle, chiunque le abbia enunciate, che sia ebreo o cattolico. A meno che non si pensi che le idee hanno un valore diverso secondo l’ambiente da cui provengono – comunità, appartenenza politica o “razziale”. Per Darde il fatto che in un libro-dialogo con il cardinale Barbarin, Bernheim abbia plagiato tesi di Jankélévitch metterebbe il primo in grave difficoltà. Quindi, il valore delle idee dipende anche da chi le dice. Ma non basta: c’è plagio e plagio. Dipende sempre dalle idee, dall’ambiente, dalla persona. Difatti, c’è chi si dimette o è costretto a dimettersi e chi, pur avendo copiato al limite delle capacità umane, viene assolto perché – si dice – ha commesso un peccato veniale o, come si arrivò a sostenere in un celebre caso italiano, è ricorso al plagio “come forma esasperata e accentuata della fascinazione”…
Insomma, il “copia e incolla”, tra cleptomania e ideologia, porta sul proscenio della cultura personalità che fanno apparire imponente quella dell’ispettore Clouseau.
(Il Foglio, 13 aprile 2013)

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