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Louise Nevelson in mostra a Roma. Uno sguardo verso la quarta dimensione

Di Stefania Taruffi
La ricerca completamente consapevole della mia vita è stata quella di un nuovo modo di vedere, una nuova immagine, una nuova percezione. Questa ricerca non include solo l’oggetto, ma i luoghi ‘tra’. Le albe e i crepuscoli. Il mondo oggettivo, le sfere celesti, i luoghi tra la terra e il mare…”.
Era una vera artista Louise Nevelson, stravagante, eccentrica, in un’epoca in cui essere un’artista donna, non era facile. “Sono un’artista” diceva Louise “cui è capitato di essere donna”. Nelle sue opere ritroviamo tutte le sue passioni: la filosofia, la passione per gli Indiani d’America, per il bianco e il nero, la luce e l’ombra e le loro soluzioni e relazioni profonde, derivanti dalla filosofia orientale.
Ha inaugurato ieri e sarà aperta al pubblico da oggi,  16 aprile, fino al 21 luglio 2013 presso il Museo Fondazione Roma, nella sede di Palazzo Sciarra, la mostra Louise Nevelson, promossa dalla Fondazione Roma e organizzata dalla Fondazione Roma-ArteMusei con Arthemisia Group.
L’esposizione, realizzata con il patrocinio dell’Ambasciata Americana e in collaborazione con la Fondazione Marconi di Milano e la Nevelson Foundation di Philadelphia, annovera oltre 70 opere della scultrice americana di origine russa Louise Berliawsky Nevelson (Pereyaslav-Kiev, 1899; New York, 1988).
«Con la mostra dedicata a Louise Nevelson – dichiara il Presidente della Fondazione Roma, Prof. Avv. Emmanuele F.M. Emanueleil Museo Fondazione Roma conferma il proprio impegno per la diffusione della cultura internazionale, offrendo la possibilità di avvicinarsi a realtà meno note al grande pubblico, ma non per questo meno importanti per lo sviluppo dellʼarte del ventesimo secolo».
«L’omaggio alla scultrice americana – prosegue il Prof. Emanuele – costituisce l’ulteriore tappa di un viaggio di là dai confini artistici del nostro Paese, che rappresenta a pieno l’identità della Fondazione Roma, i suoi valori, la sua apertura agli altri, l’attenzione costante per la circolazione delle idee e il dialogo tra le culture».
«Questo progetto – conclude il Presidente della Fondazione Roma – rivolge un’attenzione particolare al mondo femminile, focalizzandosi sulla personalità e sul tratto figurativo di alcune donne che hanno apportato un contributo significativo all’arte contemporanea. Il percorso, infatti, è iniziato nel 2009 con l’esposizione dedicata a Niki de Saint Phalle ed è proseguito con la mostra che ha visto protagonista Georgia OʼKeeffe, nel 2011».
La retrospettiva, a cura di Bruno Corà, narra il contributo che l’artista ha dato allo sviluppo della nozione plastica: nella scultura del secolo scorso la sua opera occupa un posto di particolare rilievo, collocandosi tra quelle esperienze che, dopo le avanguardie storiche del Futurismo e del Dada, hanno fatto uso assiduo del recupero dell’oggetto e del frammento con intenti compositivi. La pratica dell’impiego di materiali e oggetti nell’opera d’arte, portata a qualità linguistica significante da Picasso, Duchamp, Schwitters e altri scultori, nonché lʼassemblage – spesso presente anche nell’elaborazione della scultura africana – esercitano un’influenza considerevole sin dagli esordi dell’attività della giovane artista, che emigra con la famiglia negli U.S.A nel 1905, stabilendosi a Rockland nel Maine. La Nevelson, con Louise Bourgeois, ha segnato in maniera imprescindibile lʼarte americana del XX Secolo.
La mostra racconta, attraverso un percorso emblematico, l’attività della Nevelson, che prende avvio dagli anni Trenta, con disegni e terrecotte, consolidandosi poi attraverso le successive sculture: gli assemblage di legno dipinto degli anni ʼ50, alcuni capolavori degli anni ʼ60 e ʼ70 e significative opere della maturità degli anni ʼ80. Le opere presenti in mostra provengono da importanti collezioni nazionali e internazionali d’istituzioni e musei, quali la Louise Nevelson Foundation, il Louisiana Museum of Modern Art di Humlebaekin in Danimarca, il Centre national des arts plastiques in Francia, The Menil Collection, la Pace Gallery di New York e la Fondazione Marconi.
Nel 1986 la collettiva Quʼest-ce que la Sculpture Moderne?, presso il Centre Georges Pompidou a Parigi, consacra Louise Nevelson tra i più grandi scultori della sua epoca. L’artista seguita a lavorare sino alla sua scomparsa, sopravvenuta a New York il 17 aprile del 1988, mentre le sue opere sono acquisite da noti musei e collezionisti privati negli Stati Uniti e nel mondo.
Strutturata in un percorso che riunisce nuclei di opere, la mostra permette di comprendere l’evoluzione artistica della Nevelson cronologicamente e tematicamente.
Nelle prime sale sono collocati manufatti di piccole dimensioni che documentano l’uso del colore nero fin dai primi anni Quaranta. Subito dopo alcuni lavori dei primi anni Cinquanta – come Moon Spikes n. 112 (1953) e Moon Spikes IV(1955) –, sono presenti opere del periodo più maturo dell’artista, tra la fine degli anni ʼ50 e l’inizio degli anni ʼ60, come Night Sun I (1959) e Royal Tide III.. Queste rivelano come la libertà compositiva, dovuta all’assemblaggio di elementi geometrici non pienamente lavorati, muta nell’uso di frammenti di mobilio inseriti in strutture scatolari. Il colore nero omogeneo domina in tutte le opere.
In mostra sette disegni, datati dal 1930 al 1933: questi sono essenziali nella poetica della Nevelson, perché dal disegno nasce l’idea portante del suo lavoro. Il suo tratto mimetico diviene sicuro nella ricerca di nuove spazialità e la figura femminile ritratta – come in Untitled (Female Nude, 1933) – appare emblematica di una libertà compositiva. Evidenti anche le adesioni alle istanze delle avanguardie scoperte nei suoi viaggi in Europa (1931-1932), nelle scuole d’arte che frequenta e attraverso contatti diretti con gli artisti europei a New York.
In questi stessi anni, ceramiche come l’opera Untitled – terracotta dipinta del 1935 – ribadiscono l’interesse per il Cubismo e il Surrealismo, e anche per soluzioni antropomorfe proprie delle culture precolombiane, trasmesse da Diego Rivera e da Frida Kalho, frequentati dall’artista nel 1933 a New York.
Accanto ai disegni tre serigrafie realizzate a metà degli anni Settanta documentano l’interesse di Louise per la grafica, che studia fin dal 1947 presso il famoso Atelier 17 di New York di Stanley W. Hayter. È un’esperienza importante per lei, durante la quale elabora tecniche di stampa anticonvenzionali, con procedure personali e sperimentazione compositiva.
Nel 1963 lavora anche presso la Tamarind Lithography Workshop di Los Angeles, dove l’artista è ospite dello studio.
Qui sviluppa modalità esecutive per cui gli elementi materici – quali ritagli, trine, elementi traslucidi – sono aggiunti a piani cromatici creando stampe sempre più preziose.
Sempre di questo periodo sono le opere orizzontali e verticali di legno nero, esempi di accumulazione su supporti bidimensionali rettangolari,  in cui gli oggetti, elementi geometrici di mobilio, sono accostati secondo una ricerca di equilibrio tra le masse.
Accumulazioni verticali dei primi anni ottanta chiudono la prima parte del percorso. Più che in altri casi in cui l’artista ha utilizzato la forma verticale, queste sculture mostrano una spazialità nei volumi che accentua la tridimensionalità. Nella sala del museo che ospita queste sculture, una luce blu illumina le opere, creando una particolare visione della materia e accentuandone la valenza metafisica.
Nella quinta sala, al costante utilizzo da parte dell’artista del nero, si contrappongono alcune opere completamente bianche, colore che rende maggiormente evidenti i rapporti tra luce e ombra: la scultura intitolata Dawnʼs Host (1959), un vistoso disco bianco, testimonia il passaggio a questo colore, avvenuto negli ultimi anni Cinquanta.
Le sue opere bianche sono presentate per la prima volta al pubblico nel 1959 con l’insieme Dawn’s Wedding Feast presso il Museum of Modern Art di New York: una grande installazione dedicata al tema nuziale, composta di più elementi.
Il colore nero dà alle sculture un senso di monumentalità. Il bianco invece indica un punto di vista più sereno per l’artista, che afferma: «Quando mi sono innamorata del nero, per me conteneva tutti i colori. Non era una negazione, al contrario, era un’accettazione […] per me è il massimo», ma poi aggiunge: «Per me, il nero contiene la forma, l’essenza dell’Universo. Ma il bianco esce fuori nello Spazio con più libertà».
Nella stessa sala la produzione degli anni settanta e ottanta – come lʼopera Sky-Zag IX (1974) – è messa a confronto con le fotografie di grandi installazioni realizzate negli stessi anni all’aperto quali Dawn Shadows (1982), che si erge in Madison Plaza a Chicago e Frozen Laces-Four (1976-80) in Madison Avenue a New York.
Nonostante l’avversione per l’assenza di manualità diretta, dovuta alla monumentalità di queste installazioni in metallo, la Nevelson inizia comunque a produrre una serie di opere pubbliche – anche in omaggio alle vittime dell’Olocausto –ancora oggi visibili in tutto il mondo.
L’ambiente successivo accoglie il più grande lavoro di Louise Nevelson in mostra – Homage to the Universe (1968) –che, con i suoi otto metri di lunghezza, è il protagonista assoluto dello spazio. Il passaggio di scala operato dall’artista in opere come queste è influenzato dalla realizzazione delle grandi installazioni pubbliche.
Esposti anche sei grandi collages di differenti dimensioni. La bidimensionalità, l’assenza di una colorazione uniforme, le forme ritagliate, rivelano la particolare attenzione ai piani prospettici che si determinano nelle sovrapposizioni. Affiora la lezione cubista per coniugarsi con l’esperienza pluridimensionale.
Nella sala seguente, la poeticità e il lirismo dei volumi e delle forme di opere come Tropical Landscape I (1975) sono affiancati da una gigantografia di New York, città sempre amata dall’artista. La composizione geometrica e la semplicità di questi lavori avvicina la Nevelson alle contemporanee esperienze della generazione minimalista statunitense.
Chiudono il percorso opere di colore oro quali The Golden Pearl (1962), Royal Winds (1960) e Golden Gate (1961-70) che risalgono ai primi anni sessanta. L’artista riconduce il suo interesse per questo colore principalmente al detto degli emigranti russi, in base al quale le strade americane si pensava fossero lastricate dʼoro, ma anche all’alchimia e al lusso dellʼarte antica: «L’oro è un metallo che riflette il grande sole. […] Di conseguenza penso sia giunto naturalmente dopo il nero e il bianco. In realtà era per me un ritorno agli elementi naturali. Ombra, luce, il sole, la luna».
Nella vita della Nevelson il nero, il bianco e loro hanno un ruolo fondamentale: lei stessa mantiene separati cromaticamente i suoi lavori, negli insiemi e nelle installazioni, oltre a dividere il suo studio secondo il colore delle opere.
Una donna che ha vissuto pienamente e consapevolmente la propria vita di artista, fino al punto da  poter affermare: “ Alla fine, a mano a mano che s’invecchia, la tua vita è la tua vita e tu sei sola con essa. Sei sola con essa e non credo che il mondo esterno sia necessario. Non ha molta influenza su di me come artista, o su di noi come individui, perché una cosa non può essere scissa dall’altra. E’ la vita totale. La mia vita è una vita totale”.

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