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La retorica del perdono

di Mariano Colla
Mentre Giuseppe Giangrande, il carabiniere rimasto gravemente ferito domenica 28 aprile, davanti a Palazzo Chigi, resta in prognosi riservata, la figlia Martina è sottoposta a un intenso fuoco mediatico, fatto di domande, interviste, conferenze stampa.
Con il viso sofferente Martina si adegua all’irruenza dei media, rispondendo alla miriadi di quesiti personali che le vengono posti, ma dinanzi a una domanda, giustamente dubita, preda, come probabilmente è, di pulsioni interne contraddittorie. Le si chiede se potrà perdonare l’artefice dell’atto inconsulto che ha gravemente ferito il padre.
Viviamo in un paese di lunga tradizione cattolica e mi sono chiesto quanto l’influenza religiosa può determinare ruoli, significati e contenuti del termine perdono, vocabolo che viene spesso evocato ogni qualvolta singoli individui, famiglie o comunità subiscono un torto o una offesa grave, tale da scatenare il pronto intervento di stampa e televisione.
Fateci caso. Dinanzi a persone profondamente turbate da drammi e tragedie personali che improvvisamente hanno invaso la loro esistenza, dinanzi a visi storditi dalla sofferenza, il giornalista di turno, quasi facesse parte di un meccanico “leitmotiv”, pone la fatidica domanda: “ ma lei è disposta a perdonare? Può avere una parola di conforto per chi l’ha offesa ?”, riferendosi all’assassino, al delinquente o al drogato di turno.
A dei poveri disgraziati che poche ore prima hanno perso persone care, vittime di aggressioni, vendette, disgrazie e chissà che altro, si chiede se possono perdonare.
Quale contributo alla cronaca di un evento drammatico possa provenire dal sondare la propensione della vittima al perdono, non mi è del tutto chiaro, bensì mi appare frutto di una inutile investigazione priva di quella sensibilità che un dramma che ha scosso coscienze familiari richiederebbe.
Il perdono non è una vocazione, se non, forse, per pochi spiriti eletti, i quali lo sanno esprimere come valore esistenziale. Per i comuni mortali è la difficile elaborazione di un sentimento intimo, vissuto a diretto contatto con la propria coscienza e sensibilità, sfere emotive che, per molti, sottendono una particolare disposizione religiosa.LA FORZA DI MARTINA, 'SPERO IN MONDO MIGLIORE'
Una disposizione d’animo di cui bisogna avere rispetto e il farne oggetto di articoli e interviste rappresenta, a mio avviso, una forma di invasività, una lacerazione della riservatezza, che conduce a una inutile retorica, la retorica del perdono, appunto. La cronaca che vuole appropriarsi degli aspetti più intimi della personalità umana va oltre il diritto d’informazione.
Dinanzi alla domanda sulla propensione al perdono, così immediata e invasiva, le risposte variano, sono spesso fornite senza riflessione, ignorando il turbinio di sentimenti che le generano.
Il perdono, sentimento troppo complesso per esaurirsi in una semplice risposta al giornalista che cerca lo scoop, si manifesta in modi diversi, sempre che una persona sia disposta a concederlo.
Nella domanda è insita la ricerca di una sincerità, strappata quasi con violenza e, proprio per questo, non ponderata, ovvero adattata alle esigenze di una folla curiosa di lettori e spettatori che, come in una fiction, ama il melodramma, il lieto fine.
Perdonare, credo, non è il primo atto che ci viene in mente quando riceviamo un torto.
Il perdono è frutto di una complessa elaborazione psicologica. Il rapporto tra vendetta e perdono ha fatto la storia dell’uomo. Vendetta e perdono sono due componenti dell’animo umano in perenne conflitto, ognuna alla ricerca di una propria realizzazione da cui estrarre piacere e godimento.
La soggettività gioca un ruolo fondamentale in questo difficile contrasto. E’ umana la tendenza al perdono, oppure essa si fa spazio prevalentemente all’interno di un percorso religioso e fideistico che prescrive redenzione e salvezza per chi la mette in pratica?
Come può la domanda di un giornalista trovare una risposta adeguata? Ha senso porre quesiti di tal genere?
Per un credente l’immagine di Cristo inchiodato sulla croce che perdona i suoi aguzzini “perché non sanno quello che fanno”, oppure che afferma “perdonate e vi sarà perdonato” (Lc. 6,37) è un formidabile esempio per applicare nella vita reale lo stesso principio.
Pertanto, forse, anche nel dramma personale vissuto pubblicamente, scatta un impulso esteriore, una reazione immediata guidata da valori a lungo introiettati, a dire sì, perdono, ma la complessità della natura umana non si esaurisce dinanzi a un microfono che ci incalza, strumento idoneo ad alimentare una sterile retorica buonistica, laddove manifestare pubblicamente odio, desiderio di vendetta, rancore non appartiene del tutto alla nostra cultura.
Nella dimensione religiosa Dio ci ha perdonato di una colpa che l’umanità ha assunto su di sé dall’inizio dei tempi, colpa inquadrata nell’ambito di una teologia creazionista, ma che è priva della sua necessità di redenzione nell’ambito di una concezione laica del mondo.
Una teoria sostiene che l’assenza di perdono con tutto il suo corollario di risentimenti, odio, amarezze induce un senso di malessere che contribuisce a peggiorare la nostra salute e che quindi il perdono è una forma di guarigione, di sollievo, una completa rimozione delle angosce, dei sensi di colpa e dei rimorsi.
Tuttavia perdonare non è facile perché significa rimuovere il torto subito, un ingiustizia patita o il rancore provato per anni.
Quindi alla domanda “lei lo perdonerà” non c’è da attendersi una risposta affidabile. Il microfono del giornalista non è certo in grado di sondare le imperscrutabili profondità del nostro animo e delle nostre pulsioni primordiali, laddove perdono e vendetta sono parte integrante del DNA umano.
Nella rabbia del momento in cui si realizza tutta la portata dell’offesa ricevuta credo che il perdono sia il sentimento più lontano, compreso il risentimento verso un eventuale Dio che, all’occhio del sofferente, pare quasi corresponsabile della sofferenza subita, magari per tutta le volte che Lo abbiamo invocato per salvare una persona cara ed Egli, apparentemente, non ci ha risposto.
Per molte persone la parola “perdono” non ha alcun senso. Non è così automatico che nel cuore della gente alberghi il sentimento della carità e del perdono.
Non è certo un caso se Nietzsche, Shopenauer e lo stesso Freud fossero contrari al perdono che soprattutto per il primo era caratteristica dei deboli e degli incapaci nell’affermare i propri diritti.
La legge del perdono, grande rivoluzione spirituale del cristianesimo e la legge del “fai come ti è stato detto” rappresentano due filoni basilari della morale umana che non possono essere semplicemente sondati dall’invasiva domanda di una troupe televisiva.

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