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Il burqa invisibile

di Lidia Monda 
Kabul, anni ’70. “Per tutti quelli che pensano che il diritto alla vita sia scontato, ecco come andava in giro una donna a Kabul negli anni ’70, prima dei  Talebani”. Così recita grosso modo la didascalia.  Questa foto già da qualche settimana campeggia sul mio frigorifero, e ogni tanto mi fermo a guardarla. Le tre ragazze, i tacchi, le minigonne, i loro sorrisi, il chiacchierare, i loro capelli alla moda. Stride con l’immagine di oggi perché è l’emblema di due vocabolari differenti, di due lontanissimi sensi di libertà, e ci vuole uno sforzo immenso per cercare di capire non un’altra lingua, ma proprio un’altra mentalità. Ci provai un giorno, a Istanbul,  con una giovane donna in jeans e chador. Era gentile, ma granitica.  Anche voi siete condizionate dall’abbigliamento, diceva, e non mi pare che per questo vi sentiate meno libere. Me ne uscii dal confronto un po’ ammaccata, scomoda nei vestiti che indossavo e nei sentimenti che portavo addosso, soprattutto perché il senso di quelle parole, per la verità, ancora mi sfuggiva.

Femmes de Kaboul dans les années 70s
Femmes de Kaboul dans les années 70s

La comprensione è stata progressiva e lenta e impegnativa, anche. Mi sono ritrovata infatti anch’io vestita di un burqa invisibile, un vestito inconfessabile che in questi tempi di rigore e pregiudizio ci si ritrova addosso, anche se si vola basso, per confondersi con la massa. Io, ad esempio, abito in un quartiere sciccoso della mia città, Napoli Posillipo, Roma Parioli, Milano S. Marta, porto i tacchi, sono persino bionda, per sapienza del mio parrucchiere. La mia cara amica Monica invece è un’attivista politica e un’ambientalista.  E’ bionda anche lei, e ha gli occhi azzurri. E’ impegnata su molti fronti e questo la rende arrabbiata, per frustrazione da muro di gomma che fronteggia ogni giorno. Ma questo l’ho capito dopo. Perché, anch’io, dall’alto del mio burqa, avevo vestito lei del mio pregiudizio. La ritenevo un’estremista, in ritardo di quarant’anni su certe rivendicazioni sociali e culturali alla ‘anni 70’.
Entrambe indossiamo un cliché, un preconcetto, un’etichetta appiccicosa come la carta delle caramelle. Basta questo ad inquadrarci entrambe? Parrebbe di si, con tutti  corollari beceri e demagogici che ne seguono, io capricciosa, nullafacente, un po’ sciocchina e di sicuro immeritevole della mia fortunata condizione, lei un’integralista dell’ambiente, nullatenente perché sennò pensava alla pagnotta, refrattaria al dialogo e arrogante con chi s’informa e non si arruola. E invece no, non è così. E in una mattina di agosto, noi due, partendo da mondi immiscibili siamo diventate grandissime amiche, scoprendoci, guarda un po’, addirittura molto più simili di quanto non avremmo mai immaginato.
Il punto è  che spesso e volentieri il nostro comportamento viene schedato per macrocategorie, laddove la nota stonata non è la  categoria di appartenenza, ma la classificazione in sé, pur se fatta con le migliori intenzioni. Perché anche se il gay sarà a priori brillante e sofisticato, l’intellettuale impegnato e  la mamma devota alla famiglia,  questo meccanismo alla lunga impigrisce la mente in un’ottica preconfezionata e comoda, e il rischio è quello di scivolare sul piano inclinato del politicamente corretto per poi finire incastrati in un format vuoto e per giunta scontato.
Ora fin qui è semplice, Tutti noi ci sentiremo esclusi da questo ragionamento e ancor più da questo modo di pensare. Tutti diremo a me non capita, nessuno si permette di appiccicarmi (attaccarmi) un’etichetta,  né io l’ho mai affibbiata ad altri. E sarà pur vero, eh , per carità,  ma poiché il giudizio altrui sul nostro operato è inevitabile, ed è spesso figlio di una catalogare a priori,  tanto vale allora portare il burqa che ci viene cucito addosso con cognizione, allegria e sostanza d’agire, fissando il nostro centro, alleggerendolo di tutto quel ciarpame trito e volgare che sono i pregiudizi e ancor di più i corollari che immancabilmente ne discendono, e giungere infine a capire che questo velo non è poi così pesante da portare in giro, se indossato con consapevolezza.
E consapevolezza serve anche per iniziare a riconoscere i pregiudizi che invece noi, si, proprio noi, sottendiamo,  nostro malgrado, ragionando sul  quotidiano o sui massimi sistemi. Forse sarebbe il caso di scender giù dalla poltrona di qualche nostro pigro e obeso preconcetto e andare a guardare da vicino, a toccare con mano prima di affidarsi ad una categoria perché, con le dovute eccezioni per qualche  filosofo e “grande vecio”, per il resto dei comuni mortali solo l’esperienza diretta legittima a parlare, e se dunque pure ci ritrovassimo correttamente inquadrati in una categoria, potremmo allora di certo appoggiarla, ma con maggiore sostanza.
Contatto diretto e apertura mentale. E’ questo che scioglie il pregiudizio, annulla il preconcetto e polverizza il nostro essere, in fondo, non così distanti dai talebani.
Perché talebano è chi rifiuta tutto ciò che è estraneo, chi non lo intende, chi non se ne interessa, chi lo disprezza non potendo comprarlo, ma anche chi si sottrae al confronto, ritenendo di avere già la verità in tasca. Talebano è ogni atteggiamento di mancato ascolto dell’interlocutore, talebano è anche chi si muove  maldestro arrecando danni e dice “ non  capisci le mie ragioni” invece di “vorrei capire le tue”.
Talebano è, insomma, tutto ciò che è mancato rispetto e considerazione dell’altro da sé.
E allora, torno a guardare la fotografia sul mio frigo, e mi chiedo cosa ne sia stato poi di quelle tre ragazze sorridenti in quell’istante a Kabul, mi chiedo quali rivoluzioni interne o esterne abbiano dovuto affrontare, e mi chiedo se anche loro oggi, come quella donna a Istanbul, si sentano poi libere nei loro chador, come  mi sento io, sotto il mio burqa invisibile.
 
 

3 COMMENTI

  1. Hai dimenticato un particolare fondamentale, che invalida gran parte di questo ragionamento relativista. Il Talebano IMPONE il proprio punto di vista con la forza.

  2. “La comprensione è stata progressiva e lenta e impegnativa, anche”. Ma che è: un insetto da analizzare? Quanto razzismo mascherato da perbenismo che si legge in questo articolo

  3. Sono riflessioni e sensazioni che come donna spesso mi sono ritrovata a fare….prima credevo che tutte queste separazioni, questi estremismi crescendo sarebbero scomparsi e invece si acuiscono sempre più…sono felice per te lidia se nonostante il tuo burqa invisibile ti senti libera…io mi sentivo libera quando ero più piccola e non mi rendevo conto di quante cose mi avrebbero imprigionata nel mio futuro..non sapevo che presto si sarebbero formati dei club in cui non volevo o non potevo entrare-ti parlo dei club delle mamme integraliste che ad un certo punto si perdono in dissertazioni sulla stitichezza dei figli…perdipiù a tavola, dei club di colleghi maschi che una frase si e una no cadono nella misoginia e non si accorgono di quanta forza si ha in più di loro per rimanere ironiche, non essere vittime, e nn smetetre di essere donne, della tua città e della società che minano la tua sicurezza, la tua indipendenza, degli uomini con cui stai che non capiranno mai cosa vuoi davvero e se ti va bene saranno accondiscendenti con te invece di capire che cerchi la stessa complicità che gli regali a chili ogni giorno….) Nella mia vita credo di essere stata a volte leggera, a volte talebana poi ho cercato semplicemente di essere me stessa e questo mi rende uguale a qualunque donna del mondo( consiglio un film bellissimo sull’iran e su come una bambina cresce e diventa donna: Persepolis di M.Satrapi:
    http://www.youtube.com/watch?v=9rUp2TefBpw

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