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Bruno Ganz e la dannazione dell'alcoolismo

Bruno Ganz nei panni di Tiziano Terzani nel film La fine è il mio inizio

Di David Spiegelman
L’angelo sceso dal cielo di Berlino ha vissuto per anni con il demonio, evocato nei cupi bagliori di una bottiglia che si era trasformata nel suo carcere, un reclusorio infido perché suadente, la promessa di una tregua rispetto alla disarmante banalità non tanto del male come del bene, quanto del vivere dequalificato in esistere. Bruno Ganz, che di recente era stato Adolf Hitler nel bunker ed è appena divenuto Tiziano Terzani nel film La fine è il mio inizio  sulla vita del giornalista fiorentino che ha saputo divulgare in Occidente misteri e contraddizioni, ha forse portato all’estremo l’immedesimazione con il personaggio, che aveva trascorso il suo tempo destrutturando le certezze scientiste della cultura europea. Il film ripercorre la strada erratica di un uomo che ha saputo attraversare infinite casualità, per definirne una connessione credibile oltre il visibile e il letterale.
Viene nella vita di ognuno il momento delle confessioni e il quasi settantenne Ganz – uomo di scena che agli occhi dello spettatore italiano, a dispetto di una carriera immensa, è soprattutto il timido attempato innamorato di Licia Maglietta, nella Venezia dissonante di Pane e tulipani, un film che vive soprattutto delle sue esitazioni e dell’incapacità di arrendersi a un sentimento subito più che scelto – sceglie di raccontare l’uomo tenuto nascosto nel magazzino delle vite indossate per mestiere, custodite nella valigia dell’attore. Ed è un uomo molto diverso da  quello che ha abitato gli schermi di tutto il mondo: uso a fingersi altro da sé, o meglio a essere di volta in volta chiunque imponesse la sceneggiatura, sia pure con una misura e una parsimonia che ne hanno fatto un volto non confondibile nel panorama annacquato del cinema contemporaneo, ora sale sul palcoscenico per dire di essere un uomo, quel che resta di un uomo e delle sue nostalgie rovesciate in speranze.
«La mia debolezza – racconta in un’intervista al Bild am Sonntagè stata l’alcool, che aveva preso un assoluto dominio su di me, tanto da farmi pensare intensamente alla morte. Sono stato prigioniero per dieci anni di questa dipendenza, al punto di non riuscire senza alcool nemmeno a far colazione alla mattina o a stare in scena. Mi sono salvato dopo un grave incidente, un segnale di Dio, quando ero andato a sbattere contro un palo della luce rischiando di morire dissanguato. Da allora non ho mai più bevuto». Come se il suo angelo fosse sceso dal vuoto delle speranze a visitarlo per concedergli il sollievo della sincerità, Ganz dimostra ancora una volta – se mai ce ne fosse stato bisogno – come la vita molto spesso non sappia che imitare l’arte. In un racconto degli anni Novanta, Antonio Tabucchi rappresentava una visita museale da parte di un ammiratore privo della vista degli occhi, uso quindi a supplire al senso assente con gli strumenti dell’intelletto e del cuore. Ganz confessa di vivere un’esperienza consimile, ogni volta che va al cinema con il figlio cieco. «Non potete immaginare – assicura l’attore – cosa riescano a vedere le orecchie di un cieco. Quando Daniel vedrà il film su Terzani capirà tutto. Nelle pause del parlato capisce dai rumori cosa sta accadendo. Ogni volta rimango stupefatto nel constatare in che modo i suoi orecchi riescano a sostituire i suoi occhi». L’ultima confessione assume le sfumature della sfida. Dopo aver ammesso un intervento soprannaturale nella sua riemersione dalla nausea dell’alcoolismo, Ganz compie un’inversione di marcia o forse uno spiazzamento dialettico apparente. Se Terzani, sia pure nei modi irrituali di un pensatore portato dalla vita a trascendere le categorie della tradizione e gli schemi consolidati del pensiero neoplatonico che informa le architetture metafisiche della nostra cultura, fissava oltre la vita il senso e il fine dell’umana avventura, Ganz si dice di avviso radicalmente diverso.
Nell’intervista Ganz rivela di non credere in un’altra vita come Terzani: «Per me  – è l’ammissione, per quanto ambigua e frammentaria – dopo la morte non c’è niente, ma chissà. Per il momento propendo per la variante più materialista».
Nel film di Wenders, l’angelo sceglieva di rinunciare alla sua natura immateriale per calarsi in assoluto nella realtà, nella vita, nel tempo. Ma le pagine chiare e le pagine scure dell’esistenza concreta e di quella che accade nel fascio di luce del proiettore a volte si intrecciano secondo modi che lasciano intravedere un’intenzione esteriore, di un regista attento e ispirato.
La donna acrobata circense che aveva innamorato l’angelo di Berlino, nella realtà Solveig Dommartin, ha attraversato infatti l’ultima porta tre anni fa, rendendosi irraggiungibile a ogni sguardo, anche a quello del cuore. Così forse Ganz intende precludersi le strade che portano alla comprensione delle cose. Anche perché in cuor suo ritiene che perdersi sia l’unico modo di raggiungersi.

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