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L'ombra del Campionissimo rievocata in una mostra al Vittoriano

Giro d'Italia. Milano. Fausto Coppi con la maglietta "Bianchi".

Di Mariano Colla
“Un uomo solo al comando”.
Chi non ricorda, tra i più adulti  di noi, il coinvolgente  commento radiofonico che negli anni 50 evocava, in molti, il mito dell’invincibilità?
Gli italiani lottavano per lasciarsi alle spalle le tragedie della guerra.
La radio lanciava nell’etere messaggi gratificanti e la gente si identificava nella immagine  vincente di un campione del ciclismo, metafora di successo atta a lenire frustrazioni e sogni infranti.
Il Campionissimo, il corridore più veloce dell’epoca d’oro del ciclismo, atleta tra i più popolari di tutti i tempi e mito di moltitudini di italiani, Fausto Coppi (Castellania 1919 – Tortona 1960) rivive oggi nelle sale del Vittoriano con la mostra che ne celebra gioie e dolori nel cinquantenario della sua morte.
La mostra, che rimarrà aperta fino al 31 ottobre,  è stata inaugurata alla presenza del ministro dei Beni Culturali, Sandro Bondi, del sottosegretario Francesco Maria Giro e del direttore generale per la Valorizzazione dei Beni Culturali Mario Resca.
“La cultura italiana è fatta anche di questi personaggi, che hanno segnato la nostra storia e contribuito allo sviluppo civile di tutto il Paese più di tanti politici – ha commentato il ministro Bondi – Coppi rappresenta l’umanità italiana semplice e genuina anche se certi valori oggi possono sembrare obsoleti”.
Per anni Fausto Coppi ha rappresentato, nell’immaginario collettivo, la leggenda, il mito vincente, l’eroe che supera ogni difficoltà, sovrastando la notorietà di un altro grande campione di quel periodo, Gino Bartali.
Negli spazi espositivi risaltano la maglia bianco-azzurra della Bianchi, quella rosa del Giro del ’40, il casco indossato al Vigorelli nel ’42, nella prova per conquistare il record mondiale, e la sua bici da pista.
Le molte immagini  di Fausto presenti in mostra, ingiallite dal tempo, ma con vivo il fascino del bianco e nero, ci mostrano un atleta, esile, pur nella sua potenza, di cui si intuisce  la leggerezza del  camoscio quando, agile, lascia alle spalle i ripidi tornanti dello Stelvio, del Pordoi, del Tourmalet, del Galibier, immersi nella nebbia e nella neve.
Altre immagini mostrano, dietro di lui, i volti sfatti degli inseguitori, semplici esseri umani,  che, vanamente, cercano di ridurre il vuoto incolmabile che li separa dal campionissimo. Le foto dei fiumi di tifosi festanti  assiepati ai bordi delle strade, ne osannano le imprese.
Dicevano di lui: Fausto non pedala, compone; scatta come una fionda e il resto è silenzio.
Il confronto con Bartali, altro idolo del ciclismo di quei tempi, accostava il tifo per il campione toscano, ruvido e popolare, a quello per il campionissimo, elegante e quasi etereo, nel suo modo di essere, correre e presentarsi.
Da un lato una presenza sanguigna e, dall’altra, riservatezza e timidezza, un viso dolce ma dal sorriso amaro e melanconico.
Altre testimonianze  cinematografiche, estratte dai documentari dell’Istituto Luce, descrivono i trionfi  di Fausto sugli impervi colli del Tour de France, sulle Dolomiti nei  Giri d’Italia e sui circuiti dei mondiali. Le immagini di Walter Molino sulla prima pagina della Domenica del Corriere lo ritraggono trionfante, un’aquila pronta a volare.
Veniva avanti con leggerezza e violenza che non gli costava nulla,  scriveva la Ortese.
Molte le lettere di ammiratori e ammiratici, spesso vergate da mani insicure in una calligrafia stentata, testimonianze di semplici ma sentiti pensieri.
Le sue imprese suscitano l’interesse del mondo della cultura di allora: da Anna Maria Ortese, a Dino Buzzati, a Curzio Malaparte.
E pur nei momenti di massima gloria il viso di Fausto emana un sorriso triste, una gioia contenuta,  una innata ritrosia, tipica  della cultura  contadina  delle sue terre d’origine, la  bassa Padana.
Ma nel momento di massima gloria, agli inizi degli anni 50,  il destino lo mette duramente alla prova.
Gli anni 50 appunto : perché bisogna tenere conto di quegli anni per valutare gli effetti di uno scandalo che ha profondamente turbato l’animo del campione,  dei tifosi italiani e della società in generale,  particolarmente sensibile ai dettami della morale cattolica.
Fausto Coppi si innamora di Giulia Occhini, avvenente signora della buona società, già coniugata e, per lei, abbandona la moglie Bruna e la piccola figlia Marina.
In un’Italia bacchettona, che mette sullo stesso piano adulterio e assassinio,  in cui è violenta la lotta politica tra DC e PCI,  mentre  la Chiesa vuole affermare a viva forza i suoi principi, lo scandalo Coppi divide la società e scatena reazioni opposte tra comprensione e condanna, apertura e delusione.
Il divorzio è un attentato contro Dio, la società, il paese e un popolo si rigenerano intorno alla moralità, tuonavano i sacerdoti.
Uno spirito assai bigotto induceva ogni famiglia a giudicare sulla base di un rigido dogmatismo.
Un campione così amato non poteva discostarsi dai sacri principi della religione, di cui era imbevuta la società del tempo.
Coppi fulgido esempio di forza, idolo delle folle, doveva essere immune dai peccati terreni.
E invece no, la figura dell’amato campione veniva imbrattata dalla icona  diabolica dell’amante, la vituperata “dama bianca”, come la definì il giornalista Pierre Chany, per il colore del montgomery che indossava.
Critiche e insulti accomunavano la stampa e gran parte della gente in uno spietato “j’accuse” che travolgeva il campione, ingoiato da un vortice di polemiche e di accuse, con effetti devastanti sulla sua debole psiche.
Anche il Pontefice si unisce alla pubblica condanna.
Un nugolo di avvocati lo salva a mala pena dal carcere.
Dai successi agli insuccessi. Non bastano più le sapienti mani del suo ruvido coach Biagio Capanna a rimetterlo in sesto da incidenti e fratture.
La figura di Bartali riguadagna  prestigio. Pochi gli amici che gli sono rimasti vicini.
Il viso si fa sempre  più triste, come se trasparisse un senso di colpa,  ma Fausto tiene il punto, vive con la Occhini in una villa sontuosa.
La dama bianca gli ha dato  anche un figlio, Faustino, partorito in Argentina, lontano dalle ossessionanti pressioni italiane.
E’ una “coppia maledetta” che conduce una vita lussuosa, ma che vuole anche essere generosa , forse per rivalsa nei confronti delle malelingue.
Ma Fausto  ne risente, gli anni passano e la forza fisica declina. Arrivano gli insuccessi sportivi e le discussioni con la Occhini, avida di denaro e di una vita sugli scudi.
Nel suo declino Coppi rappresenta la metafora dell’effimero, della temporaneità del  mito e del successo.
Come un giovane Dio, Coppi si è consumato sull’altare della gloria. Ha difeso i suoi amori sino alla distruzione di se stesso, oltre che del simbolo che rappresentava .
Le ultime corse del campionissimo rivelano la sua stanchezza, il suo lento arrendersi alle vicissitudini della vita.
In questa sua palese debolezza una parte degli sportivi gli si riavvicina, e, finalmente , ne capisce il dramma.
La sua tragica morte, avvenuta il 2 Gennaio del 1960, per incapacità medica nel riconoscere la malaria, contratta nell’attuale Burkina Faso, dove si era recato per un’ultima corsa, suggella ciò che all’inizio sembrava una fiaba e che poi si è trasformata in tragedia.
I giornali dell’epoca esposti in mostra riportano le fotografie della moglie  al capezzale del marito morente con il commento: “la moglie, al capezzale di Fausto,  lo perdona in punto di morte  e la Occhini viene colpita da collasso” , con buona pace di tutti.
Scrive di lui Anna Maria Ortese : inseguito da quelle braccia e quegli occhi delusi, l’idolo degli Italiani passò, sembrava un bambino che pedalava la prima volta, aveva una grazia incerta , un po’ triste.
E vagamente melanconica è l’atmosfera che si respira negli austeri vani del Vittoriano dove il mito, pur nel suo tragico epilogo, sospende il giudizio, come in attesa di una parola fine che non verrà mai.

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