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Orson Welles, a 25 anni dalla sua scomparsa

Orson Welles (Kenosha, 6 maggio 1915 – Hollywood, 10 ottobre 1985)

Di David Spiegelman
Neppure Orson Welles sarebbe riuscito a diventare Orson Welles, la vita non gli sarebbe bastata a ottenere finalmente la parte più difficile, quella di un uomo nato per rifrangersi e moltiplicarsi all’infinito, come l’icona di una rifrazione labirintica. Era diventato vecchio da giovane, per lo scintillio ineludibile di un talento infebbrato, passando il resto del suo tempo a sopravviversi; a inventarsi una concatenazione di personaggi da indossare, ognuno piegato a un’attitudine alla mistificazione come forma di verità. Ibridare per sistema il vero nel falso, fino alla pratica del procedimento contrario: questo il metodo attraverso il quale Welles, assurto alfine al rango di icona irredimibile venticinque anni fa, ha saputo incarnare il vero uomo del Novecento, in fuga da se stesso per ritrovarsi.
Riassumerne la vita significa enumerare la formula dello smarrimento, attraverso una sequenza confusiva di travestimenti antinomici. In un tempo come il nostro, disattento in sommo grado alla profondità, la storia di Welles si sarebbe cristallizzata nello storico episodio riletto in controcampo da Allen in Radio Days, quando la zia irredimibilmente nubile dell’io narrante riesce ad appartarsi in auto con un pretendente, ma proprio in quel momento l’autoradio diffonde la cronaca immaginaria dell’invasione aliena, che getta nel panico l’America e quindi il giovanotto che, al colmo della codardia, si dà alla fuga. Fu tutto il Paese a diventare l’immensa platea, prima sgomenta e poi ammirata, per il primo spettacolo stilizzato di un artista che avrebbe riscritto le regole di ogni disciplina affrontata.
Definirlo uomo di cinema è perfino irrisorio, non fosse che il cinema è diventato altro da se stesso anche grazie alla sua opera decostruttiva e combinatoria: la rete satellitare Studio Universal celebra la ricorrenza a partire da stasera, trasmettendo per tre lunedì sera alle 21 altrettante pellicole che senza Welles neppure avrebbero potuto pensarsi: L’orgoglio degli Amberson, Moby Dick (regia di John Huston, 18 ottobre) e L’infernale Quinlan (25 ottobre).
Ogni classificazione è per sua natura povera e quindi non si può neppure cominciare a parlare di Welles senza citare l’opera che lo vide, appena venticinquenne, sconvolgere il linguaggio e la sintassi dell’arte cinematografica che stava vivendo un’epoca di pur grandi trasformazioni. Quarto Potere non è un film, per quanto la storia narrata sia emblematica di un canone imprescindibile di intendere il rapporto tra massa e potere, tra informazione e democrazia, tra ricchezza e interazione delle classi sociali. Il capolavoro di Welles è anche l’indice di una smisurata ambizione, quella di raccontare nella storia di un uomo – per quanto eccezionale – la parabola di ognuno, codificando una regola generale che disciplini l’unicità degli individui: impresa nel Novecento tentata soltanto in letteratura, quindi con forza figurativamente monodimensionale, attraverso Ulrich e il signor Bloom, che fanno di Vienna e Dublino metafore del mondo. Charles Foster Kane, ologramma decantato dal maniero di Xanadu allo stilema enigmistico corrispondente al nome Rosebud, è il personaggio narratologicamente più riuscito del suo secolo, perché riassume l’arco voltaico che congiunge illusione e dolore, poli magnetici dell’esistere.
Welles ha ridefinito per sempre i parametri di ogni possibile forma di narrazione, cimentandosi – non importa se utilmente – con le disfide più ardue: Macbeth, Otello, il dualismo stevensoniano, l’ingegnoso hidalgo don Chisciotte, forse quello in cui più avrebbe voluto far riposare il suo genio, in bilico tra la preveggenza e la follia. Soltanto Welles sarebbe stato capace di appropriarsi di un’opera in cui la sua figura incombe con la forza dell’elisione, trova forma e senso soprattutto nel concretizzarsi di un’assenza. E’ quel che gli riesce nel film che forse dà luce e leggibilità alla premeditata sovrapposizione di vita e opera: Il terzo uomo, trascrizione di un romanzo di Graham Greene. Tre sono le opere del cinema classico in cui il baricentro narratologico ha configurazione eccentrica: ma se in due racconti dissonanti come il musical Il Mago di Oz e l’elegia Apocalypse Now l’illusionista e il colonnello Kurtz compaiono nel finale, a culmine di una sceneggiatura a piano inclinato, nel film di Carol Reid l’apparizione di Welles, nello spopolato parco dei divertimenti di una Vienna sommersa di macerie, ai piedi della ruota panoramica, è fugace quanto decisiva, marchiata da una pagina di dialogo che l’attore, impossessandosi – come aveva sempre fatto – dei ruoli di regista e sceneggiatore, riscriveva secondo la propria dispotica indole.
Si era dato l’obiettivo di dimostrare che la sua epoca non potesse essere raccontata se non con il cinema. Ma Welles, come i cartografi in scala naturale immaginati da Borges, è arrivato a un risultato ancor più dirompente: ha fatto del suo tempo un’immensa pellicola cinematografica, a contrastare e sovrapporre i ruoli di protagonisti e spettatori. Quasi rappresentando l’attesa inutile di un regista capace di dare senso al caos.

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