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Quando l’arte interroga l’anima: intervista con Ray Caesar

di Martina Peloso (traduzione di Paolo Cappelli)
Creare emozione nel pubblico è l’alta attesa delle opere d’arte. Ma poiché l’emozione è soggettiva, l’opera d’arte si pone davanti a chi la guarda come uno specchio. Forse è uno specchio anche per l’autore che le ha dato la vita, certamente lo interroga, poiché una creazione artistica, come un figlio, ha vita autonoma e separata. Ma conoscere l’impressione e il sentimento di un “genitore” sulla sua opera è un privilegio di sicuro arricchimento, perché la sua impressione ci offre sempre nuove luci con cui apprezzare l’intimo riflesso che l’opera suscita in noi. Lo specchio si veste di nuove screziature e rivela inediti dettagli alla nostra sensibilità.
Uno stupore profondo ci ha colto intervistando Ray Caesar, artista di origine londinese, celeberrimo nel genere del Pop Surrealismo, tanto da essere diventato il genio prediletto della cantante Madonna e di molti altri famosi del mondo della cultura e dello spettacolo. Nato a Londra nel 1958, Ray si trasferì molto giovane a Toronto, in Canada, dove iniziò a lavorare come fotografo e illustratore all’interno del dipartimento di arte e fotografia medica di un ospedale pediatrico, in cui sarebbe rimasto per 17 anni. Quest’esperienza costituisce in parte ancora oggi l’ispirazione delle sue opere d’arte, realizzate in computer-grafica. Ray Caesar si è offerto alle nostre domande con simpatia, attenzione e curiosità il 14 febbraio scorso, giorno dell’inaugurazione romana della mostra personale “The Trouble with Angels” alla Dorothy Circus Gallery di Roma. Riportiamo qui di seguito l’intervista che ci ha rilasciato: siamo convinti che la creatività e la rara sensibilità umana che ci ha dimostrato sapranno conquistare la vostra lettura.
Mr. Ray, le Sue opere sono un ponte oltre la paura?
“Certamente alcune di loro hanno a che vedere con la paura, anche se toccano tutte le emozioni. C’è una metafora che utilizzo spesso: mi sento come un creatore di profumi. Come in un profumo, aggiungo le diverse essenze: a volte un po’ di paura, a volte un po’ di gioia, un po’ di felicità, del dolore, dei tabù e li mescolo in proporzioni diverse. A volte il profumo presenta essenze discutibili. E quando tento di mettere queste essenze in un quadro e qualcuno lo osserva, può percepirle, ognuno secondo le proprie sensibilità. So che quelle essenze ci sono e che gli altri possono percepirle. A volte una persona spiritosa può cogliere l’umorismo, coloro che stanno soffrendo colgono il dolore. È così che avviene.”
Cosa ha imparato dai piccoli pazienti dell’Ospedale pediatrico di Toronto e cosa impara oggi dai personaggi che vivono nelle Sue opere?
“Quando si lavora in un ospedale pediatrico, capisci che molti di quei bambini sono in un reparto in cui è possibile documentare i loro problemi, attraverso fotografie, e quindi spesso mi sono trovato a gestire materiale fotografico di situazioni difficili. A volte questi bambini sono vittime degli uomini, altre volte della natura. In alcuni casi, sono nati con un cuore che si è formato solo per metà. Allora capisci che ognuno di noi dovrebbe vivere la propria vita al meglio, poiché non tutti hanno il privilegio di vivere una vita intera. Il tempo è un dono. Ho ritratto i Re Magi, i quali portavano in dono Amore, Gioia e Tempo. Il tempo era proprio ciò che mancava a molti di questi bambini. È una cosa che ho capito solo dopo: tutti i giorni vediamo cose di questo genere, ma non siamo capaci di rammentarle tutte. Uno scrittore, come Lei, può scriverne tornando a casa, essere catartico, e poi mettere via il suo scritto. Io, come artista visivo, devo disegnare prima di mettere via la mia arte.”
Cosa direbbero le fanciulle delle Sue opere se potessero parlare?
“Penso che direbbero che… beh, che abbiamo in dono Amore, Gioia e Tempo e dobbiamo usarli bene. Si trovano nel loro mondo, sono degli innocenti rispetto alle cose che serbano nell’animo; là si sentono al sicuro e quindi ci consentono di visitare il loro piccolo mondo, che diventa il nostro.” Come sceglie, di solito, i colori per le sue opere? “Probabilmente come fanno tutti: rispondendo alle cose e alle situazioni. Metto due cose insieme e la loro unione mi fa percepire che c’è qualcosa di giusto. Anche un colore ha una propria voce. A volte non ritengo neanche di aver preso una decisione, penso che le cose si vadano formando da sole. Quello che faccio è avviare il processo. Qualsiasi cosa nel mondo, che sia un edificio, o il progetto di un’auto, o la semplice idea di un progetto, va avviato, iniziato. Poi ci si deve lavorare sopra. E poi viene la parte più importante, che è quella di dover finire ciò che si è iniziato. Il processo è semplicemente questo: inizio, ci lavoro, porto a conclusione. Nel corso del processo, qualsiasi cosa uno faccia o costruisca assume vita propria e fa in modo di prendere le decisioni per noi. Non assegno un significato al mio lavoro, ma questo emerge man mano che il lavoro si sviluppa. Inizio dai colori e a volta lui (il lavoro) li cambia, per diventare quello che vuole, non quello che voglio io.”
Cosa le piace di Roma?
“Le persone qui… Non ho mai visto persone che… Prendiamo i tassisti: parlano ad alta voce con tutti. Non sono in grado di dire se stanno parlando con il loro migliore amico o litigando, ma sembrano comunque divertirsi. Quello che mi piace di Roma non è diverso da quello che mi piace nell’arte italiana: il Rinascimento, il manierismo, il Barocco, il Futurismo, la transavanguardia. Siamo nella culla di tutto ciò che è stato creato. L’arte italiana evoca sempre, sempre delle emozioni. Non si tratta mai di un lavoro freddo e concettuale, perché credo nessun lavoro di quel tipo potrebbe esistere qui in proporzioni significative. All’inizio degli anni ’70 del secolo scorso abbiamo visto molta arte concettuale: artisti come Enzo Cucchi, Sandro Chia, Francesco Clemente, Mimmo Paladino sono tutti protagonisti di questo tipo di opere. Come ho già detto, nei miei prossimi lavori reinserirò l’aspetto figurativo, che mi consentirà di sentire un qualcosa che sia in relazione con questa realtà concettuale, proprio perché, come ho detto, amo l’arte concettuale.”
Lo spazio tridimensionale della sua arte quanto risulta dissociato dalla realtà e quanto si fonde in essa?

“Spesso pensiamo di vivere nella realtà, ma non lo facciamo. Siamo tutti qui a guardare attraverso gli occhi, ma di fatto ricreiamo nelle nostre teste ciò che si origina dal riflesso della luce. Tutti coloro che vede qui sono un’illusione ricreata in questo ambiente. È la nostra personale idea di come sia la realtà. Quando creo un mondo, un gioco, ho la percezione che quello sia il mondo che esiste da qualche parte nella mia mente e l’arte è semplicemente un modo per tirarlo fuori. Pensi a tutto ciò che non esiste intorno a noi, a una dimensione fatta di pura energia. Tutti abbiamo una forma costituita da energia positiva o negativa, a seconda del nostro passato e dei nostri ricordi. Pensi a un materiale grezzo, a tutto ciò che ne possiamo fare. Si può estrarre questo materiale grezzo dalla propria mente, dai propri ricordi positivi e negativi, e creare una vita. Non è necessario essere un artista. Può farlo ogni persona in grado di creare la vita a partire dalla propria storia, dalla propria energia positiva e negativa. Quindi siamo tutti creatori, tutti guaritori. E con questa energia facciamo cose diverse. Io faccio semplicemente delle fotografie, mentre Lei sta creando un mondo che le persone leggeranno e dal quale otterranno informazioni. Tutti hanno un proprio modo di gestire questa energia. Quei mondi interni, quindi, non sono in realtà interni. Quello che osserviamo ora è un mondo interno: noi che vediamo in maniera diversa e abbiamo punti di vista diversi, vivendo comunque la stessa esperienza, ma in un modo diverso.”

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