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Il diario di Ken Saro-Wiwa, poeta nigeriano "eroe dei nostri tempi"

Il poeta e intellettuale nigeriano Ken Saro-Wiwa

Di Valentino Salvatore

“Non ti ricordi di Ken Saro-Wiwa? Il poeta nigeriano, un eroe dei nostri tempi”, così recita l’inizio di un’intensa canzone  di una delle  rock band  italiane più sorprendenti degli ultimi anni, Il Teatro Degli Orrori. Un uomo dalla non comune sensibilità, che ha saputo unire una toccante poetica al concreto impegno politico. Fino in fondo, fino alla condanna a morte da parte del governo militare della Nigeria. “Dio prenda la mia anima, ma la lotta continui”. Queste le ultime parole prima di essere impiccato.

E’ Ken Saro-Wiwa, tra le voci più interessanti e originali della letteratura africana post-coloniale. Di etnia ogoni, dagli anni Ottanta diventa portavoce delle rivendicazioni dei popoli del delta del Niger. La sua è infatti una terra violentata dall’indiscriminato sfruttamento delle risorse petrolifere a opera delle multinazionali, che mette in crisi l’economia di sussistenza e crea gravissimi danni ambientali. Come l’avvelenamento delle acque e delle coltivazioni a causa di sostanze tossiche.

Per fare un confronto con un evento recente, secondo alcune stime il greggio riversato negli anni proprio nel delta del Niger sarebbe il doppio rispetto a quello perso nel golfo del Messico durante il disastro ecologico di questi mesi.
Grazie al suo instancabile attivismo non violento nel Mosop (Movement for the Survival of the Ogoni People) l’intellettuale nigeriano riesce a mobilitare la popolazione e ad ottenere la visibilità internazionale – e soprattutto mediatica. E’ un personaggio eclettico, oltre alla scrittura si dedica ad altre forme di espressione, per veicolare a più persone possibile il suo messaggio. Sbatte in faccia al mondo la guerra in Biafra, degli interessi economici che ci sono dietro e soprattutto il dramma dei bambini-soldato, col romanzo Sozaboy. Si dedica persino, in maniera pionieristica, alla sceneggiatura della prima sit com autoctona Basi and Company, per arrivare al grande pubblico con leggerezza ma sguardo acuto.

Con la lucidità politica e l’apertura mentale che gli veniva dalla sua cultura ibrida, in bilico tra Occidente e Africa, chiede che le compagnie petrolifere dividano parte degli introiti per garantire un’esistenza dignitosa anche ai popoli che vivono in quelle regioni ricchissime. Senza scadere in un ecologismo irrealistico oppure ostacolare la crescita economica e culturale della sua gente in nome di un chiuso tradizionalismo.

Viene arrestato varie volte per il suo scomodo dinamismo, accusato senza prove concrete di essere il mandante morale della morte di alcuni oppositori del Mosop. Dopo un processo discutibile, il 10 novembre 1995 viene impiccato insieme ad altri attivisti a Port Harcourt. La sua diventa la dolente vicenda di un eroe umile e sfortunato, pacifico ma al tempo stesso appassionato, che ha parziale giustizia – terrena – solo dopo la morte. L’anno dopo infatti viene avviata una causa contro la potentissima Shell, accusata di essere coinvolta nella morte del poeta, per salvaguardare i propri interessi economici in combutta col governo nigeriano. Nel 2009 il colosso petrolifero patteggia e accetta di sborsare circa 15 milioni e mezzo di dollari, pur ribadendo la propria estraneità. Lo fa solo per favorire la riconciliazione, così rende noto. Ma pesantissimi sospetti rimangono nell’aria. E intanto la speculazione sull’oro nero nigeriano continua.

E’ recentemente uscita in Italia, a ricordarci gli avvenimenti dolorosi di Ken Saro-Wiwa e a rendere ulteriore giustizia al suo tormento e al suo impegno, la nuova edizione del suo diario di prigionia. Si intitola Un mese e un giorno. Storia del mio assassinio. (Baldini Castoldi Dalai Editore; Collana I saggi, traduzione di M. Codignola, 277 pagine, prezzo di copertina 17,50 €) Opera appassionante, impreziosita stavolta dalla prefazione del premio Nobel Wole Soyinka e da una serie di lettere. Quelle dello stesso Wiwa a parenti e amici, in particolare le commoventi missive inviate dal figlio dopo la morte del padre. E altre giunte alla sua famiglia, spedite da personaggi del calibro di Nelson Mandela, Chinua Achebe, Susan Sontag, Ethel Kennedy, Ben Okri, Harold Pinter, Arthur Miller, Nadine Gordimer, Salman Rushdie.

Lo scrittore si confronta con la sua detenzione, durata proprio un mese e un giorno  nel 1993. Condannato a morte da un tribunale militare, verga un vero e proprio testamento umano e spirituale, politico e civile. Nelle vibranti pagine, l’accusa coraggiosa di un intellettuale che sente tutta la responsabilità del suo ruolo contro un regime cieco e violento, che nega i diritti della gente e svende la terra piegandosi agli interessi economici.Una sorta di profeta disarmato, che affronta una morte inevitabile con dignità e vede oltre, con speranza, un futuro di riscatto. Che proprio per questo ha saputo colpire più a fondo le coscienze intorpidite, anche di quell’Occidente lontano e distratto. Con l’unica arma che aveva scelto e che sentiva di avere a disposizione, ovvero la parola e la scrittura.

Per questo motivo è apprezzato in particolare dallo scrittore Roberto Saviano, che sente nei confronti di Wiwa una sorta di affinità elettiva. L’urgenza di fondo è simile, nonostante la differenza delle situazioni e dei contesti. Scardinare un sistema oppressivo e una violenza diffusa con la sola forza del verbo. Non il kalashnikov, magari venduto da affaristi simili a quelli che ha combattuto, per diventare poi l’ennesimo signore della guerra che si appoggia alle multinazionali. Di quelli che poi si sostituiscono alla dittatura precedente, nel drammatico balletto già visto del sanguinoso tribalismo africano.

Per questa sua scelta di non violenza Ken Saro-Wiwa diventa un insopportabile tafano per il potere, che ha fatto di tutto per silenziarlo. Ma le sue idee e i suoi scritti per fortuna rimangono e riemergono dalle paludi intossicate del Niger anche oggi, a ricordarci un’Africa che aspira ad uscire dall’abisso di povertà e sfruttamento. Senza pietismi.

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