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Arcade Fire: un’epopea pop

di Francesco Corbisiero
Vuoi per l’ormai tradizionale usanza di entrare in letargo e ridurre al minimo le durature uscite da casa durante l’inverno, vuoi per gli impegni e vuoi pure per l’aver permesso ad altre passioni di richiedere tempo, era da un po’ che non mi trovavo a scrivere di musica e adesso fa strano tornare. Poche storie: non è possibile fare i fricchettoni alle serate quando c’è una laurea da strappare a breve.
E allora come spiegare il perché io mi trovi ora con le scarpe sulla terra brulla e polverosa dell’Ippodromo delle Capannelle? Va bene, ricorrerò non all’allentamento della morsa da parte della sessione estiva, quanto piuttosto a ragioni squisitamente personali. Ci sono appuntamenti a cui mancare è scortesia, e darsi malati o fingere di ignorarli solo patetiche scuse. Io per esempio questa corrente atlantica che parte dal Canada a tentarmi e si poggia proprio sulla mia testa non ho saputo non assecondarla. Vuoi veramente mancare alla data romana del passaggio in Italia degli Arcade Fire, Francesco? Su, sii serio.
Facciamo ordine.
E’ colpa della corrente, è vero. E’ colpa di quest’orchestrona di una decina di elementi ( turnisti inclusi ) a capo della quale ci sono due fratelli americani di stanza a Montreal, è colpa dell’hype di Pitchfork che da sempre li accompagna, è colpa di quattro album molto originali, ed è pure colpa mia. In fondo, non è difficile lasciarsi ammaliare da un gruppo che ha fatto del suo approccio al pop il proprio fine  e di una certa idea di suono, al di là degli album o dei brani che possono andare a formare la loro cronologia,  il mezzo per perseguirlo, facendosi trasportare spesso e volentieri dall’eclettismo ( trasformismo? ), a patto però che non vi lasciate abbattere dalle imprese difficili. Probabilmente è così, con la barra dritta sul proposito di ricerca sonora all’interno del progetto, che hanno conquistato l’attenzione di David Bowie, uno che la vita ha amato complicarsela tra svariate tipologie di droghe e ambiguità sessuali col solo scopo di produrre bellezza. Altrimenti non sarebbe stato David Bowie.
Dicevamo, la natura del percorso fatto. Che è stato tutto fuorché facile da mettere in pratica – col costante arcade-firepericolo di non apparire coerenti ai maliziosi, poi – e tutto fuorchè catchy per il pubblico. Lavori come quelli degli esordi, l’acclamato ‘’Funeral’’ ( 2004 ) in cui risiede l’anima folk del gruppo che si combina col pop da camera, il cupissimo ‘’Neon Bible’’ ( 2007 ) tutto costruito su insistenti trame di organo. Subito dopo, la folgorazione: ‘’The Suburbs’’ ( 2010 ), che è l’album che scriverebbero i Beatles se fossero ancora tutti insieme dentro uno studio di registrazione, sospeso tra bordate rock, ballate e un tutta la rassegna storica del pop classico. L’esatto contrario, nonché logica presupposto, dell’ultima fatica, ‘’Reflektor’’ ( 2013 ), doppio album, tributo ultra barocco all’elettronica pop degli anni ‘80 con la produzione pesantissima di James Murphy degli LCD Soundsystem. Un biglietto da visita mica male e che obbliga allora a chiedersi ‘’chi  diavolo sono gli Arcade Fire?’’ e obbligandomi a rispondere: nulla di tutto ciò che le tue orecchie non siano disposte a sentirci dentro, caro lettore. Glam-rock, art-pop, fai un po’ tu.
Arrivo all’Ippodromo e rispetto all’anno scorso scopro una consistente novità: per trovare il palco ora occorre attraversare un lungo corridoio all’aperto dopo aver oltrepassato l’area dei paninari, basta questo per trovarselo di spalle ed entrare in una specie di arena molto più grande dello spazio a disposizione nelle scorse edizioni. C’è già chi suona, gli Antibalas – da New York City, specificano prima di andarsene -, che come band di apertura propongono qualcosa di molto simile a musica sudamericana sporcata da sezioni di fiati fusion e qualche reminescenza di bossanova. Una jam session tra Miles Davis e Piero Umiliani all’orario di punta sul marciapiede in una strada di Città del Messico. L’orario invece qui è quello dell’aperitivo, la musica da lounge senza avere nulla di quell’algido ed elettronico dei soliti sottofondi lounge, anzi calda e ballabile, estiva. Vanno via e mezz’ora più tardi, non prima che i tecnici abbiano aggiustato tutto il necessario per l’arrivo del piatto forte della serata.
Il mio timore,ingollando una birra, è quello di sentire le vecchie canzoni riarrangiate con le nuove strumentali elettroniche del gruppo. Non ho una precisa idea sul perché di questa paura, ma gli Arcade Fire mi sembrano un gruppo sciroccato quanto basta per poter metterla in pratica. Invece devo constatare di aver torto, di non essermi fidato abbastanza. Appena sento ‘’Normal person’’ eseguita precisa come sul disco capisco di aver compiuto un grossolano errore di calcolo. Il tiro comunque è incredibile: le canzoni dal vivo hanno consistenza maggiore che su cd, arrivano al pubblico quadrate e dirette, ‘’Reflektor’’ è una di quelle e tutto ciò che lascia al termine della sua esecuzione è un generico senso di fastidio per non essere nati in tempo per vivere il clima degli anni ’80, rievocati per l’occasione. Seguono ‘’Flashbulb eyes’’, ‘’Neighbourhood #3 ( Power Out )’’,  ‘’Rebellion ( Lies )’’, quest’ultima accolta con discreto entusiasmo dal pubblico,  diventato numerosissimo nel frattempo, e ‘’Joan of Arc’’. Subito dopo un dittico formidabile: ‘’Month of May’’, guazzabuglio disordinato di chitarre elettriche, e ‘’The Suburbs’’, raffinata ballata beatlesiana dalla stupenda coda strumentale. Non ho mai nascosto l’amore che provo per il terzo disco degli Arcade Fire, forse il loro più compiuto, ma questo momento per me è il è più prezioso di tutto il concerto. Proseguendo coi titoli, s’incontra per strada l’altra hit del gruppo, ‘’Ready to start’’, un altro funambolico ritorno a Funeral, ‘’Neigbourhood #2 ( Laika ), e la bella ‘’No cars go’’. Poi il groove di ‘’We exist’’ fa piazza pulita di tutto, altra perla, recente però,  del repertorio dei fratelli Butler che dipanano stratificazioni strumentali lungo una linea di basso semplicissima e pericolosamente somigliante a quella di ‘’Bilie Jean’’ di Michael Jackson. Bei momenti, come pure quando con solo la tastiera e i fiati ad accompagnare la voce, Win Butler presenta ‘’Afterlife’’ con l’intro di ‘’My body is a cage’’ ( che sarebbe stato bello fosse suonata per intero, ma forse avrebbe, col suo tono neniale, spezzato troppo l’atmosfera che si voleva che lo spettacolo avesse ). Atmosfera che cambia quando Regine Chassagne, voce femminile della band e moglie di Win Butler, indossa una mantello, scende la breve scalinata che dal palco porta al pubblico e sulle note di ‘’It’s never over ( oh Orpheus )’’ inscena col marito un duetto in una canzone chiave per ‘’Reflektor’’, tanto è vero che il tema di Orfeo ed Euridice ricorre anche nell’artwork del disco e il brano fa il paio con ‘’Awful sound ( oh Eurydice )’’ nel secondo cd, quello più sperimentale e meno derivativo dell’ultima opera dei canadesi. La stessa Regine Chassagne che consacra un altro momento indimenticabile del live, quello che chiude la prima parte del concerto, prima dell’encore, con una Sprawl II ( Mountains beyond mountains )’’ che paga debito con i Blondie dei bei tempi andati – la voce, pulitissima, prende note molto alte ed è incredibilmente vicina al timbro di Debbie Harry.
Gli Arcade Fire, questo enorme collettivo di ben dodici elementi sul palco, divisi tra sezioni ritmiche, fiati, archi e strumenti classici, questi dietro le cui spalle è piazzato un enorme pannello su cui sono proiettati intrippanti effetti ottici e sormontati da ventidue specchi esagonali a decorare la parte alta del palco, lascia la scena ma ritorna subito, e che ritorno! Quel gran cazzone di Butler si mette una veste bianca e infila la testa di una grande maschera di cartapesta con le fattezze del viso di Papa Francesco, mentre il fratello al piano e la moglie alla voce si esibiscono in una qualche antiquato e minimale canto religioso, alla fine del quale butta via tutto l’armamentario e chiama il gruppo per ‘’Here comes the night time’’ mentre il pubblico si vede piovere addosso una pioggia di coriandoli sparati da chissà dove e rimane col naso all’aria per diverso tempo, stupefatto da quanto il concerto stia prendendo la piega di una festa di Carnevale. Chiudono l’inaspettata ‘’Keep the car running’’ e l’anthem ‘’Wake up’’- indimenticabile fu il duetto con Bowie su questo pezzo – che lascia le migliaia di spettatori a urlare il coro del ritornello.
Che si può dire degli Arcade Fire, in conclusione? Caro lettore, se sei rimasto a casa hai fatto molto male, questi qui paiono –e a ragione – il futuro della pop music o quanto meno un luminoso presente. Mai banali, talvolta kitch ma senza strafare, barocchi al punto di indossare strane giacche e abbigliamento vistoso, ricordano tanto i Coldplay, pure nel percorso artistico che hanno perseguito. Peccato che l’intimismo di ‘’Funeral’’ sia così diverso da quello di ‘’Parachutes’’, che ‘’The Suburbs’’ non sia neanche lontanamente paragonabile a ‘’Viva la vida or Death and all his friends’’ se non nel tono complessivo, che la svolta elettronica di ‘’Reflektor’’ affondi le radici  in necessità estremamente più alte di quelle plasticose e artificiali di ‘’Mylo Xyloto’’. Peccato che i Coldplay siano un gruppo di merda e che gli Arcade Fire no, non lo siano diventato. Riempiranno prossimamente le arene? Chi può dirlo. La stessa domanda rivela l’avermi scambiato per un indovino, cosa che vi sconsiglio, e non per quello che sono, un modesto critico musicale che a Capannelle ha assistito ad un signor concerto da cui ha ereditato un carico consistente di soddisfazione e un feroce mal di schiena per le ore in cui è rimasto in piedi. Basta questo.

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