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Tommaso Primo, "genio analfabeta" di una Napoli delicata e pura

di Marina Capasso
pTommaso Primo è una di quelle scoperte che avvengono per caso e che ti cambiano l’umore, facendoti sorridere ogni volta che lo ascolti. Nato a Napoli, in una realtà difficile, assorbe l’influenza della “gente comune” e della spontaneità così profonda delle persone che lo circondano. E tutto questo è proiettato all’interno delle sue canzoni, quasi tutte scritte tra i quindici e i ventuno anni, di getto, ispirazioni di vita vissuta. Il suo disco di esordio “Posillipo Interno 3” racchiude brani che parlano d’amore, dei problemi che affliggono un’intera generazione e descrivono quelle strade e quegli scorci che rendono Napoli una città dal fascino misterioso e contraddittorio. La sua poesia, piano piano, grazie anche al supporto della rete e dei social networks, lo sta facendo conoscere tra i musicisti emergenti, tanto che, ad esempio, il brano “Gioia”, cantato con l’artista senegalese Ismael, ha totalizzato più di 73 mila visualizzazioni. Attualmente sta lavorando alla stesura di un secondo disco che dovrebbe uscire l’anno prossimo. Continuando a godere della meravigliosa delicatezza della sua voce, quindi, restiamo in attesa di future nuove emozioni.
Quanto c’è di Napoli nella tua musica e in che modo ispira le tue canzoni?
«Nella mia musica c’è una Napoli tutta mia, anzi, oserei dire: “solo mia”. La città mi ha permesso di osservarla da un punto di vista privilegiato. Ho avuto un’infanzia magica, nonostante la  prematura scomparsa di mio padre. Sono “cresciuto”, infatti, nel ristorante di mio nonno, poi diventato dei miei zii, fra camerieri, pizzaioli, clienti strambi, parcheggiatori abusivi autorizzati. Loro sono stati la mia figura paterna e hanno fatto di me, involontariamente, un vero e proprio miracolo del Popolo napoletano (sarò megalomane ma è così che mi sento). Di solito i ragazzi nella mia condizione rientrerebbero nella fascia umana “individui da salvare” che tanto piace ai media, io, invece, mi sento un ragazzo fortunatissimo. L’umiltà della gente semplice mi ha dato tanto, così come la pazzia degli emarginati e la dignità degli sconfitti, tutte sfaccettature dell’animo che Dio mi ha permesso di conoscere durante il mio cammino.»
Da cosa deriva la scelta di cantare in napoletano?j
«Il Napoletano è la mia lingua, quella che mi permette di esprimere sentimenti intraducibili con l’utilizzo di altri linguaggi. “’A ‘nziria” non è “la manìa” italiana, così come “la furbizia” non è “‘a cazzimma”. Napoli è un microcosmo, ovvero un universo circoscritto in un piccolo spazio di terra in cui accadono eventi incredibili, nel bene e nel male, che meritano di essere descritti con termini appropriati.»
Il tuo brano d’esordio, “Canzone a Carmela”, potrebbe essere considerata una generica interpretazione dei problemi che affliggono la nostra società. Ci racconti come è nato e quale valore ha per te?
«E’ stata la mia prima canzone, scritta a tredici anni, parla del suicidio di una ragazza che conoscevo. Quando seppi della notizia, tornai a casa e sentii l’irrefrenabile bisogno di prendere la penna e iniziare a scrivere, poi, con la chitarra, che tutt’oggi strimpello, ma allora peggio di adesso, decisi di creare una semplice melodia; fu il mio primo giorno da cantautore.»
La scelta della location del video per “Gioia” è in perfetto connubio con il senso profondo del brano. Un’idea di riscatto e di rilancio di “chi ce crede ancora”. Spiegaci da dove deriva l’idea del brano e dell’incontro con Ismael.
«Ero sul balcone di casa, guardavo il mare suonicchiando la chitarra, all’improvviso, come per magia, mi arriva questa melodia. La scrissi tutta di un fiato. Rodari diceva che le idee sono nascoste dentro di noi come i bruscolini di polvere e che un raggio di sole, al momento giusto, le illumina e le rende visibili, io credo, invece, che le idee o almeno le canzoni, provengano da un’altra dimensione. Certo, c’è bisogno dell’esercizio per limarne la bellezza, ma la nascita del tutto è un qualcosa di prettamente metafisico. C’è da specificare che “Gioia” è nata molto presto, così come tutte le canzoni di Posillipo Interno 3, e solo l’incontro con il maestro Oscar Montalbano, oltre a quello con Ismael, hanno permesso di renderla così com’è adesso.»
7“Addore” è una poesia delicata che pone l’attenzione sulla genialità delle persone comuni. Com’è nata?
«Ai tempi del Liceo, in metropolitana, conobbi un personaggio strambo, Pino. Si vantava con me, perché era possessore di uno strano record, quella di aver viaggiato per anni senza biglietto, sui mezzi pubblici italiani. Era un lunedì e avevo un compito di Latino, entrai nel solito vagone che, stranamente, quella mattina era poco affollato, c’eravamo, infatti, io ed una suora. Ahimè, non avevo il biglietto… Salì il controllore, capì tutto e, con un sesto senso da fare invidia ad una gazzella, m’invitò a scendere. Osservai il finestrino, la suora mi sorrideva: era Pino che per sfuggire al controllore aveva indossato quel travestimento.  “Addore” è dedicata a tutti i “Geni Analfabeti” che affollano le mie giornate, fortunatamente, aggiungerei.»
Quali sono i tuoi progetti futuri?
«Siamo a lavoro per un nuovo disco che riserverà non poche sorprese, ma non posso ancora dire nulla…»

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