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Diario di Bordo di una Scrittrice Emergente – Il Laboratorio di Scrittura Rai Eri

Quinta puntata: questione di peeling
Di Kristine Maria Rapino
Riccardo Cocciante non sbaglia. Nella vita è tutta questione di peeling.
Certo anche lui, come tanti, ha commesso un errore. Ma di battitura. Era evidente anche al romantico ricciolone francese che questo titolo sarebbe stato molto più appropriato. Se solo si fosse accorto prima della svista, senza dubbio l’avrebbe corretto. D’altronde una sera sarà capitato anche a lui, come a me, magari inviando un sms a Margherita, di augurarle la “buona morte” anziché la “buona notte”, e di ricevere in risposta un dito medio nella veste grafica di un elegante punto interrogativo. È chiaro. La colpa non è nostra, ma del T9 e del suo senso dell’umorismo un po’ noir. Oppure del potere telepatico della tecnologia. Chissà.
scrittoreIn sostanza, per evitare errori di questo tipo è meglio rileggere. Sempre. Perché se «cantiamo insieme in libertà lasciando andar la voce dove va», checché ne dica Cocciante, finisce che il testo diventa un raduno di parole alla Woodstock, con frasi che se ne vanno in giro per la pagina a predicare «Make love, not WORDS» – il che, a dirla tutta, potrebbe anche essere un utile suggerimento.
Una volta riletto il testo, è davvero questione di peeling: applicare sul racconto una serie di agenti esfolianti per levigare e migliorare l’aspetto della narrazione. Perché la scrittura è l’epidermide della storia, il rivestimento esterno. E come tale, va curata. Quando necessario, con un sapiente ritocchino dell’editor-chirurgo. Una fiala di “botext”: più volume, meno grinze. Senza eccessi, a meno che non ti chiami Paris Hilton – scusate, è più forte di me. Nei casi meno lacrimevoli, te la cavi con una semplice pulizia casalinga a base di impacchi ai verbi essenziali e maschere astringenti. In un modo o nell’altro, è un’arte “per via di togliere”. Via le impurità narrative. Via l’affollamento di trame. Via i personaggi indecisi, quelli che indugiano troppo davanti alla vetrina di una frase e non entrano mai, nonostante il cartonato all’ingresso prometta un lieto fine. Via tutto. Togliere il più possibile. È quanto da sempre sostiene con successo il pubblico maschile. Faremmo bene a dargli ascolto – se non altro, in questo caso.
Perché anche tu, almeno una volta nella vita, sarai uscito dal bagno del ristorante con aria disinvolta trascinando sotto la scarpa mezzo metro di carta igienica. L’importante è accorgertene prima che qualcuno te lo faccia notare, pena la perdita definitiva della sensualità. In altre parole, gli errori vanno compresi prima di portarseli a spasso per il racconto, con risultati disastrosi. Le regole da seguire per non commettere sbagli di questo tipo, le conosci. Sono le stesse che metti in pratica ogni volta che il tuo partner t’invita con gentilezza ad andare in salotto, al grido di “io e te dobbiamo parlare”: non dire troppo, cammina dritto, quando parli fa cenno di sì con la testa per non creare ambiguità. Se sei un uomo, fingi di non pensare al calciomercato. Se sei una donna, è il momento per rivelargli l’estratto conto.
Quindi, educa il tuo personaggio. Non può e non deve generare dubbi nel lettore. Ad esempio, non può presentarsi con un panettone gelato a un party di ferragosto. Non può andare a sciare con le pinne da snorkeling. Non può comprare un armadio Ikea e dimostrare di saperlo montare. Chi legge deve uscire dal testo con alcune certezze. Una di queste è trovare il modo di restituire il senso del racconto. L’altra, è trovare lo scontrino per restituire l’armadio, non avendone capito il senso.
Riprendiamo il discorso.
Siamo alla quinta lezione del Laboratorio Rai Eri e ci occupiamo ancora dell’incipit.
libro2Ne abbiamo già parlato. Abbiamo insistito su un punto in particolare, cioè l’intimità con il personaggio principale. Sappiamo qual è il motore che lo spinge, cosa desidera e cosa teme. Sappiamo che la narrazione si sviluppa intorno ad un’idea forte, che condiziona l’inizio del racconto. L’incipit apre una serie di aspettative. Santiago Roncagliolo, scrittore peruviano, afferma: «Quando rifletto sulla storia mi si presentano diversi potenziali primi paragrafi. Quando uno di questi mi piace davvero so di avere, in embrione, un romanzo. La trama ci mette la cronologia degli eventi, ma il primo paragrafo definisce il tono, il personaggio, il ritmo. In breve, la voce». E anche «la ricerca di senso», aggiunge Paola Gaglianone, soprattutto in un racconto. Quanto più l’incipit dà la connotazione del personaggio, tanto più è valido. Maturare la traiettoria porta a scrivere un incipit incisivo.
Dunque, ci sei. Hai creato l’incipit perfetto. Ne sei convinto. Poi, a racconto finito, masticato, digerito, lo rileggi. E ti accorgi che c’è qualcosa che non va. Ci sono alcuni errori classici che si commettono nelle prime stesure di un incipit. Il primo consiste nel mettere troppa carne al fuoco. Nell’incipit hai detto troppo, o troppo poco. Hai svelato più di quello che c’era da sapere, oppure non hai detto niente che invogliasse a proseguire. Spesso le cose belle sono offuscate dal troppo.
Alcuni incipit cedono a quest’ansia di dover spiegare tutto. In realtà, è solo alla fine del racconto che riesci a trovare il giusto equilibrio. Perché di questo si tratta: equilibrare le informazioni. Quando narri una storia, c’è una serie di dati che fornisci a chi sta leggendo. Non si tratta di riferire i fatti, ma di narrare. L’espediente per non rischiare di essere banali è creare un’atmosfera, immergersi in una situazione. Devi ricordare che prima del «C’era una volta», il lettore è allo scuro di tutto, non sa in quale scenario hai intenzione di condurlo. Pensiamo a ‘Il Signore degli Anelli’. J. R. R. Tolkien è stato in grado di creare dal niente un mondo perfettamente logico, consequenziale, e di farti entrare subito dentro al gioco. Già a pagina tre, scopri di avere dimestichezza con le regole di quel mondo. Di fatto, le domande di pre-incipit formulate nel corso della scorsa puntata sarebbero più indicate per un dopo cena. In altre parole, sarebbe opportuno porsele dopo aver avviato un testo e non prima, per capire se quell’incipit è in grado, o meno, di aprire la porta su una situazione definita. Non è un quiz a risposta aperta. È una prova del nove.
Perché si tratta di costruire. «La costruzione di un romanzo», suggerisce lo scrittore e co-docente del Laboratorio Alessandro Salas, «in realtà è assimilabile alla costruzione di un palazzo. Ci sono le fondamenta, che è l’incipit. C’è uno sviluppo. E c’è un tetto, che è la fine. Il vantaggio è che non sei costretto a seguire un ordine reale. Lì per lì, quando scrivi, segui un ordine dall’inizio alla fine. Ma poi, nella revisione, non è un caso se spesso una delle cose a essere riguardate e ricorrette è proprio l’incipit. Perché quando hai tutta la costruzione, ti accorgi che le fondamenta sono deboli, inadeguate, o sovradimensionate. Devi trovare l’equilibrio». Quindi, le buone narrazioni sono equilibrate, costruite sapientemente, dall’inizio alla fine. Né una parola di più, né una parola di meno. Le informazioni cadono al momento giusto. Né prima, né dopo. Alle volte basta spostare l’ordine di alcune frasi per avere la narrazione più giusta. Ed è un processo che va studiato. La prima stesura non sarà mai perfetta. Occorre scrivere, riscrivere, cancellare, togliere, buttare, cancellare tutto, mantenendo una sola idea buona. Non bisogna neppure cadere nell’errore contrario, cioè darsi all’ippica al primo impatto col testo, pensando che sia tutto da buttare. Magari lo è, ma è comunque presto per dirlo.
indecisioneUn altro errore che spesso si compie è la mancanza di ritmo narrativo. Vediamo di che cosa si tratta. L’incipit è un vero e proprio motore che dà il via alla traiettoria. Poi basta proseguirla. Per farlo, le leggi sono le stesse che mettiamo in pratica per muoverci nella nostra esistenza: un piede dopo l’altro. In altre parole, il racconto deve camminare. Andare dal punto A, al punto Z. Il ritmo non è altro che questo: una successione di modificazioni. Ci devono essere dei momenti in cui la situazione muta. Ed è necessario riconoscerli. Rileggere il proprio racconto con sguardo critico serve ad accorgersi se il ritmo è percepibile e se ci sono momenti in cui la situazione iniziale diventa “drammaturgia”. Significa che il sentimento iniziale deve confrontarsi con forze contrarie che provengono da un altro personaggio o da un intervento esterno, in grado di modificare quella situazione. Anche il dialogo, se c’è, ha la stessa caratteristica trasformativa del racconto ed ha un suo cammino. Una cosa è certa: non si può restare fermi. Alla fine devo sapere da dove sono partito e che cosa ho raggiunto. Ovvero, quale senso questo racconto ha conquistato. La prova dell’esistenza di un ritmo del racconto sta nel suo ricordo. Se a posteriori, infatti, dopo averlo letto, siamo perfettamente in grado di ricordare ed elencare i punti di snodo in cui la situazione ha avuto un’evoluzione, vuol dire che il racconto ha un suo ritmo. Sai individuare i punti senza i quali la storia non andrebbe verso il suo senso definitivo. Chi ti conduce da un punto all’altro sono i personaggi, resi credibili dalla loro connotazione emotiva. Perché i racconti sono delle strutture geometriche, sempre.
equilibrioAltro errore, uno dei più frequenti nella scrittura di un racconto, è la mancanza di un ribaltamento. «Può sembrare una forzatura», spiega Paola Gaglianone, «ma di fatto è così. In un buon racconto ci deve essere, e quasi sempre c’è, un ribaltamento». Più o meno evidente. Cioè, un momento in cui la situazione si capovolge. Perché succede qualcosa. La vedi, è tangibile. Questo significa fare narrativa e non muovesi fra i rovelli mentali. In tutti i racconti, anche quelli all’apparenza immobili, se li leggiamo con attenzione scopriremo dei punti di snodo che ci portano verso un cambiamento. Sembra un principio meccanico, ma non lo è. I passi più belli che ci ricordiamo della letteratura sono quelli in cui c’è un ribaltamento. Ad esempio, Paolo e Francesca. Non riuscire a staccarsi è una condizione dettata dall’amore, che diventa allo stesso tempo una condizione di dolore eterno. È un ribaltamento. Non è una legge, ma è «quella magia strana che non si può neanche spiegare, per cui la letteratura segue le regole della vita», spiega la Gaglianone. Il ribaltamento è ciò che crea il senso del racconto. Un esempio ne è «L’artefice», uno dei racconti più brevi al mondo, scritto da Jorge Louis Borges. Molti lo definiscono il racconto perfetto. Leggiamolo.
«Un uomo si propone di disegnare il mondo. Nel corso degli anni popola uno spazio con immagini di province, di regni, di montagne, di baie, di vascelli, di isole, di pesci, di case, di strumenti, di astri, di cavalli e di persone. Poco prima di morire, scopre che quel paziente labirinto di linee traccia l’immagine del suo volto».
Borges scrive una premessa, la sviluppa e fa un ribaltamento. Il protagonista passa dall’aspirazione a rappresentare l’universo, alla scoperta che l’universo è lui. È un vero modello di racconto, perché ha un ritmo, ha un incipit e uno sviluppo in sole quattro righe. Magistrale.
Raccontare non è altro che questo: portare alla luce il cambiamento. «Non a caso», osserva Salas, «uno dei topos principali della narrazione è il viaggio». È la metafora di qualsiasi tipo di scrittura narrativa. Si tratta sempre di un viaggio. Della mente, interiore, della coscienza. E soprattutto è trasformativo, cioè nel corso del viaggio la situazione iniziale si trasforma. Ecco perché studiare i grandi racconti dì avventura è utile per desumerne le regole universali. I punti fermi sono sempre gli stessi.
Divertiamoci ora a smontare un nostro racconto. Vediamo che fine fa la premessa e se rispetta quanto promette. Scopriamo in quali punti in cui si avvia verso una soluzione finale. Ricostruiamo il ritmo, identifichiamo gli snodi, cioè dove la situazione cambia. Oppure capiamo se la situazione rimane se stessa per troppo tempo. Questo significa leggere in maniera critica. Ed ecco il valore della rilettura. Lo scrittore e giornalista Beppe Severgnini la indica fra i suoi sedici suggerimenti per la scrittura: «Non ridirlo. Se mai, rileggerlo». Rileggere. Quello che ci costringevano a fare le nostre maestre e che in pochi si ricordano di mettere in pratica, anche al momento di inviare una mail o un sms. Figuriamoci nella stesura di un testo lungo e pieno zeppo di parole, come un romanzo. Troppa fatica. Eppure, la lettura è entrare in relazione. Ed è molto importante ciò che si stabilisce in maniera istintiva. Soprattutto, una cosa è fondamentale: quando hai finito di leggere, devi essere pienamente convinto di ciò che è successo. Sembra stupido, eppure non lo è.
Ecco un altro errore: l’ambiguità. È quanto di peggio possa esistere in un testo. In un racconto, il “ni” non esiste. Il senso finale deve essere incisivo e la personalità dei personaggi, chiara. Non possono esserci dubbi. Il lettore deve avere un’idea precisa della motivazione del testo, del senso. Perché la narrativa, oltre che geometria, è anche matematica. Un bello smacco per quelli che pensavano di preferire le materie umanistiche.
Un altro sbaglio che si compie è quello di affezionarci a più linee narrative e decidere di mantenerle tutte. Troppi input non sono solo dannosi, ma anche controproducenti. Occorre semplificare. Un solo tema principale, e dritti al punto. Spesso è su questo che si concentra il lavoro di un editor. «Un editor bravo», afferma Paola Gaglianone, «deve vedere quello che sta zampillando e come un rabdomante dire dove far nascere lo zampillo vero». L’editor scova la forza di un testo laddove neanche l’autore immaginava. Se la situazione non è ancora definita, quindi, ci devo ritornare. E il campanello d’allarme si trova proprio nella rilettura.
Il consiglio è: tutto deve essere più tetto e più letto.
Se lo rileggessi, scoprirei di aver sbagliato. O forse no.

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