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Diario di Bordo di una Scrittrice Emergente – Il Laboratorio di Scrittura Rai Eri

Settima puntata: apologia della bottana industriale
Di Kristine Maria Rapino
Scoop: Gennarino Carunchio è mio padre. Anzi, nostro padre.
Il rozzo marinaio siciliano che faceva lavare le mutande alla riottosa e sofisticata Mariangela Melato e che le tirava sonori ceffoni in nome della crisi economica, ha il nostro DNA. Perché quel dialogo, uno dei più famosi del cinema italiano, ha sotto un’idea sociale pienamente condivisa. E cioè, se ti trovi su uno yatch e naufraghi su un’isola deserta, non chiedere soccorsi. È la volta buona che scampi all’Imu.
Botte da orbi e cordiali scazzottate sono piuttosto frequenti nel panorama cinematografico e letterario. Dalla coppia Sordi-Vitti, a Fra Cristoforo e Don Rodrigo, passando per Montalbano, il dialogo, da che mondo è mondo, genera elettricità. È uno scambio di energia fra i personaggi. Termodinamica testuale. Ci sono momenti della vita in cui stare zitti diventa difficile, se non impossibile. In quei casi, aprire le virgolette è l’unica soluzione per far arieggiare le stanze narrative. Una boccata d’aria fresca.
sincronicita06Per dare vita a un dialogo, tuttavia, occorre creare l’occasione. Esordire con un «Signorina, abballa?» alla Casa dell’Emigrante, potrebbe non sortire gli effetti sperati. Non gliene vogliate, ma il gentil sesso vi preferirebbe senz’altro un muro portante da venti centimetri. Lo stesso vale per la donna. Evitare di cadere nell’Assioma della Carta da Parati in una sala da ballo, significa predisporsi a un dialogo costruttivo e a una ceretta distruttiva. Cose entrambe necessarie, dal punto di vista strettamente letterario. Ci vuole text appeal. L’approccio giusto al dialogo richiede un valido pretesto. Che sia compilare il CID, richiedere la lettura del contatore, interloquire col vicino che collauda il trapano a percussione alle sei di domenica mattina. È un sentimento dominante quello che si vuole comunicare. Ma ricorda: i gestacci non sono visibili – neanche in neretto.
Il dialogo si regge sull’equazione della parabola: c’è un inizio, un apice, una fine. Nel mezzo, cinque talenti da far fruttare. Alla fine, devo poter ritirare il mio denaro con l’interesse. In altre parole: lasciare un segno. Uno qualsiasi. Una sgommata sul parquet, un murales sotto al cavalcavia, un libro che pregiudichi per sempre la vita sentimentale degli adolescenti. Purché ci sia qualcosa di nuovo sotto il cielo. Non tre metri sopra. Vi prego, no.
silenzio1Il dialogo è un concentrato di caffeina narrativa. Anche in questo caso, vale la regola delle tre C. Caldo il momento, comoda l’estensione, carico il contenuto. Ma c’è sempre qualcosa che si preferisce tacere. Il silenzio è parte integrante della seduzione testuale, se non il vero asso nella manica. Lunghe pause, accavallamenti di gambe, ammiccamenti generosi. Se vuoi che qualcuno ti desideri, usa il silenzio. Se invece soffri d’incontinenza verbale, sperimenta altri metodi. Le barzellette su Totti no. Ci ho provato. Non funzionano.
La lunghezza del dialogo deve essere omeopatica. Piccole dosi efficaci. Né ermetico, né prolisso. Immaginate un ipotetico dialogo fra Ungaretti e Manzoni. Suonerebbe più o meno così:
– Ah! Che stranezza, per amor del cielo! Un laboratorio di scrittura! Chi avrebbe creduto che le cose potessero arrivare a questo segno!
– Già.
Perfino Lina Wertmüller fu bocciata sul Teorema di Troisi: i nomi lunghi sono scostumati. Meglio Ciro. È più lungo, ma non troppo represso. Tiene il tempo di prendere un poco d’aria…
Siamo alla settima lezione del Laboratorio di Scrittura Rai Eri.
CAM03351Parliamo del dialogo. Scusate il gioco di parole. Cerchiamo di metterne a fuoco i punti essenziali. Quando si costruisce il rapporto con il personaggio principale del nostro racconto o romanzo, in primo luogo lo dobbiamo far vivere attraverso le azioni. Poi è necessario avere la capacità di entrare nella sua mente e sentirvi il rumore del cervello – o del criceto che gira la ruota, come preferite. Oltre a queste due componenti fondamentali, ne aggiungiamo una terza: dobbiamo sentirlo parlare. Dunque: azione, pensiero, parola. Sono queste le tre coordinate che costruiscono la fisionomia di un personaggio.
Dargli una voce. Di questo si tratta. Il dialogo è il momento in cui il narratore fa un passo indietro. È una magia, se ci pensiamo, perché sei tu ad inventare la voce dei tuoi personaggi, conforme alla personalità che hai creato. Occorre darci delle regole minime. La prima cosa da dire è questa: all’interno della narrazione, un dialogo deve avere motivo di esistere. Salas aggiunge in proposito: «il dialogo è quel momento in cui la cinepresa va in presa diretta sui personaggi e li fa parlare. Non c’è più la voce narrante, il filtro. Non esiste un dialogo dove due non si dicono niente. Ci deve essere un motivo, perché anche quello è un punto di snodo della narrazione. Porta a un cambiamento. Altrimenti è inutile. Il dialogo vero e proprio è una partita che ha motivo di accadere lì, in quel preciso momento, in quel preciso punto del percorso dei personaggi. In alternativa, si può far ricorso alla prosa, alla voce narrante che dice: “si dissero due cose e poi uscirono di casa”. Solo quando è importante sentire cosa si dicono e come se lo dicono, ha senso inserire un dialogo».
Perché si sceglie il dialogo diretto? Ci sono delle volte in cui semplicemente non hai scelta. Tu stai raccontando una storia. Ci sono dei passaggi che non possono essere raccontati attraverso un discorso indiretto, perché sono situazioni che si evolvono solo attraverso un corpo a corpo dei protagonisti. Come nella vita. Le trasformazioni avvengono proprio attraverso lo scambio. È una drammaturgia. «Un esempio», indica Paola Gaglianone, «è questo: io voglio fuggire di casa. Apro la porta per andare, becco mia madre che mi trattiene. Andrò o non andrò? Dipende da quello che ci diremo. Dipende da quanto in quel dialogo faremo un corpo a corpo, per cui si toccano le corde che spingono a cambiare». Quando si scrive un dialogo si deve avere chiaro cosa si vuole far venir fuori, l’idea che ci spinge a scriverlo. Quello che conta è ciò che vogliamo raccontare. «Tra la mamma e la figlia», continua la Gaglianone, «l’idea può essere che lei ha paura di aprire quella porta. Se è questo che sento di più, il dialogo andrà verso quella direzione». C’è un sentimento dominante che l’autore insegue in un dialogo..
download (16)In alcuni momenti della narrazione, come nella vita, si sente il bisogno di farsi una bella chiacchierata o una bella litigata con qualcuno. A volte, raccontando una storia non puoi andare oltre nel discorso indiretto. Pensiamo, ad esempio, al famoso dialogo tra Fra Cristoforo e Don Rodrigo, nella scena conosciuta comunemente come «Verrà un giorno», del capitolo sesto de ‘I Promessi Sposi’. Se quei personaggi non si fossero scontrati, se non si fossero insultati, mostrando la loro personalità, non ci sarebbe stata drammaturgia. Il discorso è: perché lo devi raccontare da fuori quando li puoi vedere, ed è anche meglio? Un bel dialogo è una partita di sentimenti buttati sul tavolo. In genere, c’è uno che perde e uno che vince.
Quali sono le regole per costruire un buon dialogo? Ne basterebbe una sola: credibilità. Un dialogo deve essere credibile, ovvero deve avere la capacità di metterci in una situazione le cui dinamiche sono chiare. Lo scrittore e co-docente del Laboratorio Alessandro Salas puntualizza: «deve essere credibile dal punto di vista letterario, perché non puoi riportare un dialogo reale su carta. Va applicato un filtro. È una versione letteraria della realtà». E rispetto alla realtà, ha una caratteristica difficilissima: un buon dialogo si basa più sul non detto che sul detto. I silenzi sono più importanti delle parole. Il sottotesto del dialogo è importantissimo.
Alla base di tutto ci deve essere la conoscenza dei personaggi. Ecco la prima regola per la costruzione di un dialogo efficace: sapere in che contesto si trovano i personaggi e che cosa vogliono. Quindi, avere ben chiare le loro personalità e la situazione di partenza. È ciò che più conta nella realizzazione di un dialogo.
Un volta chiarito questo aspetto, la seconda regola è: qualcosa deve accadere. I due personaggi devono uscire dal dialogo con una “rivelazione”. Ci deve essere sempre qualcosa che viene fuori e che cambia la prospettiva dell’uno e dell’altro. Il dialogo leva un velo, rivela, per far apparire qualcosa che prima non era chiaro. L’andamento ritmico è lo stesso del racconto in genere: vari passaggi prima di raggiungere un apice, il climax. Quello è il momento in cui la situazione rivela un altro aspetto di sé, diverso dall’inizio. Cerchiamo di capire quali sono i punti di snodo del dialogo, quelli in cui si assiste a un’evoluzione. C’è un momento in cui tutto può ancora succedere. È lo Sliding Doors del dialogo. Anche qui, come nel racconto in generale, funziona la legge del ribaltamento. L’importante è costruire un ritmo. Questo è il motivo per cui un dialogo non può essere la fotocopia della realtà.
Altra regola: «Less is more». È quanto proponeva Mies van der Rohe, il padre dell’architettura minimalista. Vale anche per la narrativa. I dialoghi devono avere il numero giusto di passaggi. Né troppi, né superflui. Leggiamo un esempio di dialogo ben riuscito, di solo otto battute. È tratto da ‘Basil From Her Garden’ di Donald Barthelme, scrittore americano. Il dialogo procede al limite dell’assurdo senza alcun intervento da parte del narratore, nel tentativo di imitare l’impersonalità di una seduta psichiatrica.

– Cosa fa dopo il lavoro, la sera, o nei fine settimana?
– Niente di speciale.
– Qualche interesse?
– Mi piace molto la caccia con l’arco, con i nuovi archi che ci sono ora. Archi combinati, si chiamano. Faccio anche parte della Galápagos Society. Ci occupiamo dell’ambiente. Facciamo davvero un buon lavoro.
– E cos’altro?
– Beh, l’adulterio. Già. È così che trascorro gran parte del mio tempo libero.

Chiediamoci: quanto non detto è presente in questo dialogo? Capiamo che è sposato, è cinico, vive di stereotipi sociali e mette l’adulterio sullo stesso piano di uno sport. Si tratta di poche battute, in cui qualcosa cambia rispetto all’inizio. Avviene una rivelazione: da un’assoluta normalità, viene fuori l’aberrazione del personaggio. E la situazione si capovolge.
400_F_42769717_WuHtYDGDJreHxGAiGi2ieKpuDimVzOyLLa tendenza attuale della narrativa è quella di andare verso la sceneggiatura. Show, don’t tell, suggeriva lo scrittore statunitense Henry James, animato dal grido di guerra: «Drammatizzare, drammatizzare!» È una tecnica che propone agli scrittori di spiegare di meno e mostrare di più, per ottenere una narrazione più coinvolgente. La costruzione del dialogo appartiene per definizione al teatro e al cinema. Rispetto ai classici, ora i ritmi sono molto più rapidi. La voce narrante, però, anche all’interno di un dialogo, continua a espletare le sue funzioni: muovere i personaggi, far vedere il luogo e il tempo. Gli inserimenti della voce narrante spesso sono visivi, ti servono a immaginare meglio una scena. Lui che si siede vicino al letto, lei che si accende una sigaretta. Per un buon dialogo visualizzare è comunque fondamentale. Devo sapere dove sono i personaggi, che atmosfera hanno intorno. E di che umore sono, soprattutto.
Oggi si ricorre sempre meno all’intervento della voce narrante all’interno di un dialogo. È un botta e risposta. «Sono scelte stilistiche», commenta la Gaglianone. Dipende dalla natura di quella voce narrante. «È una questione che ha a che fare col vedere», aggiunge Salas. «A seconda di quello che hai bisogno di vedere per capire del dialogo senti la necessità dell’intervento della voce narrante. Alle volte, basta la parola per capire come è stata detta quella frase, con che intenzione. Alle volte, no». La voce narrante può anche chiarire o stravolgere completamente il senso di una frase appena detta, se si è usato un tono ironico. In quel caso, se la voce non intervenisse, non si comprenderebbe l’ironia. Non esiste alcuna regola al riguardo. «Io interverrei se mi rendessi conto che quel dialogo è troppo serrato e poco comprensibile nella sua evoluzione», torna a dire Salas. «Stacca ogni tanto, fai una pausa. Mettici a metà un momento di narrazione che faccia da volano alla seconda parte del racconto».
Abbiamo avanzato dei suggerimenti per costruire un buon dialogo. Detto questo, lo sappiamo, non esistono regole. Al contrario, esistono degli ammonimenti. Cosa non fare in un dialogo? Uniformare le voci. Salas riprende: «State facendo parlare due personaggi. Sta alla vostra inventiva e alla conoscenza dei personaggi conferire a ognuno dei due una voce riconoscibile, anche infarcendola di idiosincrasie. Alcuni personaggi li riconosci da come parlano, perché hanno qualche ricorrenza che ti fa capire chi sono. La cosa da non fare è appiattire tutto, cioè far parlare i due personaggi nello stesso modo, che poi è lo stesso modo della voce narrante. È un piattume terrificante. E soprattutto, a un certo punto ti confondi». In un testo scritto, distinguere i personaggi è ancora più difficile, perché non abbiamo il supporto delle immagini. Ecco la sfida. Se fossero due attori basterebbe un cambio di accento, di gestualità. Di fatto, alle volte capita di leggere un romanzo in cui la voce narrante e i personaggi parlano nella stessa maniera. In quei casi, un buon editor suggerirebbe di passare al discorso indiretto. Non tutti gli scrittori hanno un uguale uso del dialogo. Ce ne sono alcuni, come Gabriel García Márquez che lo usano pochissimo. Altri, come Hemingway, che al contrario sono grandi dialoghisti. Ognuno ha la sua attitudine.

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