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Dalle rovine, il romanzo d'esordio di Luciano Funetta

Luciano Funetta nasce a Gioia del Colle, classe ’86. Dopo aver vissuto sette anni a Bologna nel 2012 si trasferisce a Roma dove attualmente vive e lavora. Tra i suoi racconti: Noi stessi abbiamo dimenticato su Watt 0, Certe informazioni su Costola 1, Gli occhi della montagna su Cosa si scrive quando si scrive in Italia con Granta Italia, Strappacuore su Prospektiva 55, oltre a contributi per Archivio Bolaño. E’ una delle firme di Dylan Skyline -dodici racconti per Bob Dylan (Nutrimenti,2015). Fa parte del collettivo Terra Nullius  e della direzione artistica del Flep! – Festival delle letterature popolari. Dalle rovine è il suo visionario ed ipnotico romanzo d’esordio di cui vi offriamo un estratto per gentile concessione dell’autore.

Il collezionista di serpenti Rivera, grazie a un video amatoriale, entra in contatto con l’insolita e seducente scena della pornografia d’arte. Questa esplorazione si trasforma ben presto nella discesa in un abisso popolato da figure oscure, tra le quali spicca un argentino a dir poco enigmatico: Alexandre Tapia. Proprio attraverso la frequentazione di Tapia, Rivera scoprirà un universo di abiezioni private e catastrofi collettive, vittime invisibili e carnefici rimasti impuniti. Un’opera ipnotica e allucinatoria: una storia di uomini che, come scriverebbe Vollmann, «rappresentano un incubo per se stessi», e che scelgono di sublimare le loro vite in un’ultima, sanguinaria opera d’arte.

 

Dalle rovine,  Luciano Funetta, Tunué, 2015

Il quartiere degli Inglesi aveva preso quel nome quando, trent’anni prima, una famiglia di notabili londinesi vi si era trasferita occupando la villa più grande della zona. Fino a quel momento il quartiere era pressoché disabitato. Le case giacevano nell’abbandono e i giardini che le circondavano avevano preso il sopravvento inghiottendo le architetture, la vegetazione si era gonfiata, i parchi delle ville, separati da muri alti tre metri, avevano iniziato a intrecciarsi tra loro. La famiglia inglese aveva, suo malgrado, richiamato l’attenzione sul quartiere. Nel corso di pochi anni altre case erano state acquistate e ristrutturate, e i parchi riportati nei ranghi della civiltà naturale. Era sorta così una specie di oasi per individui benestanti, una minuscola colonia dentro la città che nel frattempo si sgretolava e seguiva il passo inarrestabile del progresso. Durò tutto fino al giorno in cui una vicina degli inglesi non chiamò la polizia per via di un certo numero di colpi che aveva sentito provenire dal giardino accanto. Quello che venne ritrovato tra gli alberi del parco degli inglesi somigliava molto a una composizione floreale. Nel punto più fitto del giardino giacevano i corpi del padrone di casa, di sua moglie e della loro figlia di nove anni, ordinatamente disposti supini, l’uno accanto all’altro.

Poco più in là, con la faccia devastata, il figlio maggiore, e ai suoi piedi un fucile da caccia. Nonostante i tentativi degli abitanti, che avevano provato a rimuovere l’accaduto dalla memoria collettiva, la denominazione “degli Inglesi” aveva resistito, conferendo alla zona una luce patibolare. L’oro aveva virato al rosso, poi al nero e infine al grigio della nebbia impenetrabile che circonda i luoghi con una cattiva reputazione. I giardini avevano ripreso a crescere, le case a scrostarsi e a venire fagocitate dalle fronde. Mentre entrava nel quartiere silenzioso e costeggiava a passo d’uomo i cancelli sbarrati delle ville alla ricerca del numero 270, Rivera contava gli anni che lo separavano dall’ultima volta in cui aveva messo piede da quelle parti. Al telefono, quel pomeriggio, Birmania gli aveva consigliato di lasciare la macchina nei paraggi della villa e di entrare a piedi. Il cancello automatico non funzionava più e lui viveva da solo. Percorse i venti metri che separavano l’auto dal civico 270. I suoi passi risuonavano sull’asfalto umido e chiunque avrebbe detto che producessero un’eco insolita, come se Rivera non camminasse da solo. Quando fu davanti al cancello si sporse appena per dare un’occhiata tra le sbarre. Una macchia di alberi scuri impediva di guardare al di là della curva del viale. Tutto era illuminato da un solo lampione che gettava intorno a sé un cerchio di luce gialla.

Suonò il campanello, riconobbe la voce di Birmania che chiedeva qualcosa, ma la ricezione era disturbata. Per non correre rischi, Rivera disse il suo nome. La serratura del cancello scattò. Percorremmo il viale, che a parte il lampione solitario all’ingresso giaceva nell’oscurità più totale. Solo dopo aver superato una curva infestata di rovi, scorgemmo la casa e davanti a lei, in piedi, la sagoma dell’uomo. Tremava, o dava l’impressione di tremare, simile a un ologramma. L’edificio, per una strana illusione architettonica, sembrava compresso, chiuso su se stesso come un carapace. I muri esterni erano ricoperti da un’apparenza di umidità. Tutte le persiane delle finestre – Rivera ne contò undici sui due lati che riusciva a vedere – erano chiuse. Quando ci trovammo a pochi metri da lui, Jack Birmania mosse un passo in avanti e sorrise. Era un vecchio elegante, alto, dal volto quieto e luminoso. Se lo avessero condannato alla ghigliottina, ci dicemmo, sarebbe salito sul patibolo senza battere ciglio, e persino la sua testa tagliata, in fondo al cesto, avrebbe mantenuto quell’aria di insondabile serenità. «Vidi un enigma che si avvicinava. E quando finalmente me lo trovai davanti, non era più un enigma» disse, poi aggiunse: «Letture di gioventù. Gli anni hanno portato via dalla mia memoria il nome dell’autore». «Grazie per l’invito» disse Rivera. «Non mi capita spesso di venire da queste parti».

dallerovineL’uomo ridacchiò: «Capisco. Fortezza è così grande. D’altronde io stesso ho scelto di vivere qui per non essere disturbato. Sente che silenzio, Rivera? Merito degli alberi. E di quella vecchia storia di cui avrà sentito parlare. Ci tengono al riparo. In questa casa non dovrà mai sentirsi a disagio e soprattutto qui sarà sempre al sicuro». Con un cenno della mano Birmania indicò a Rivera di seguirlo. Salimmo i tre gradini che ci separavano dal portone lasciato aperto e ci ritrovammo in un androne male illuminato, piuttosto ampio. Sembrava una camera oscura senza proporzioni. In fondo alla stanza iniziava una grande scalinata che saliva come un sentiero d’ombra verso piani superiori. Birmania spinse una porta che non avevamo notato e un rettangolo di luce si spalancò alla nostra sinistra. «Prego» disse. «Prima lei». Rivera attraversò da solo la soglia e venne inghiottito, Birmania lo seguì. Noi entrammo per ultimi. Ci trovammo in un ambiente quasi spoglio, fatta eccezione per i divani di pelle nera intorno a un tavolo basso, rettangolare. Le pareti laterali erano ricoperte da ante di legno, mentre quella in fondo era quasi del tutto occupata da un telo, sul quale venivano proiettate figure in bianco e nero che si esibivano in numeri da circo. Sopra le nostre teste un fascio di luce attraversava la stanza da un’apertura collocata sopra la porta. Ci trovavamo nel cinema privato di Birmania. Rivera si fermò per guardare le immagini mute del film.

Gli attori erano tutti individui deformi, uomini dalle teste calve e gigantesche, gemelli siamesi, nani, uomini e donne che senza braccia o senza gambe che somigliavano a foche, vecchi scheletrici con i loro sigari tra le labbra. Birmania osservava la scena come se contemplasse l’esito di un progetto sognato per molti anni. «Terrificante, vero? Eppure quello che sta guardando è un capolavoro assoluto nella storia del cinema». «Non l’ho mai visto» rispose Rivera. «Il regista è Browning. Gliene avevo parlato al telefono. Fare questo film lo rovinò. Fino a quel momento la sua carriera era stata incredibile, ma la censura riuscì a farlo a pezzi. Hollywood lo bandì per sempre, gli fece pagare caro il suo genio. In un certo senso lo trasformò in uno dei suoi personaggi, e quando un uomo viene esiliato dall’umanità non può fare altro che impazzire». Fece qualche passo e si fermò tra Rivera e lo schermo. La sua ombra ingigantita si allungò sul volto di una minuscola donna in lacrime.

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