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L'Arte come ultimo rifugio. Proust a Grjazovec di Czapski

Potrebbe essere soltanto un saggio sull’autore della Recherche, per quanto acuto e ragionato nei dettagli della conoscenza. Ma questo scritto di Józef Czapski curato nell’edizione adelphiana da Giuseppe Girimonti Greco, Proust a Grjazovec, riecheggia il “Quatuor pour la fin du temps” composto da Olivier Messiaen nel campo di prigionia di Görlitz, oppure la straordinaria autoreclusione di Wladislaw Szpilman aggrappatosi ai notturni di Chopin nell’inferno del ghetto di Varsavia. L’arte come scialuppa per salvarsi dal male è un tema che ricorre spesso nel Novecento, sia negli universi concentrazionari bellici che nei totalitarismi materialistici o teocratici (si pensi a Leggere Lolita a Teheran di Azar Nafisi), ma l’opera di Czapski – polacco nato a Praga a fine Ottocento, scrittore e pittore, uomo di pensiero e d’azione – risalta per il contrasto straordinario tra la materia trattata e il contesto delle conferenze che l’intellettuale teneva ai suoi compagni di prigionia.

Era un modo di non lasciarsi andare, di mantenere viva la tensione emotiva e mentale, di conservare il rispetto di sé, quel decoro conradiano che dev’essere, almeno idealmente, tanto più alto quanto peggiore sia lo scenario nel quale ci si trovi. «In quei momenti – ricorda Czapski – pensavo con emozione a Proust che, nella sua camera surriscaldata e tappezzata di sughero, si sarebbe meravigliato e forse commosso se qualcuno gli avesse detto che, a vent’anni di distanza dalla sua morte, un manipolo di prigionieri polacchi, dopo un’intera giornata trascorsa sulla neve, in un freddo che arrivava spesso a quaranta gradi sotto zero, avrebbe ascoltato con il massimo interesse la storia della duchessa di Guermantes, l’episodio della morte di Bergotte e qualsiasi altra cosa sia riuscito a ricordare di quell’universo di preziose scoperte psicologiche e di sublime bellezza letteraria».

Czapski sopravvisse alla reclusione e al gelo, a differenza di molti dei suoi commilitoni che sarebbero stati deportati in altri campi, oppure sterminati a Katyn’, cuore di tenebra dello stalinismo che progettava la decapitazione intellettuale della Polonia. Gli uomini che non sarebbero tornati da quella guerra avevano avuto come viatico all’ombra il ritratto lieve e partecipe di un grande narratore, che aveva raccontato le vite degli altri dalla sua cellula inaccessibile, dalla sua stanza di silenzio. Perché ogni vita le contiene tutte, tutte le spiega.

 
Józef Czapski, Proust a Grjazovec, a cura di Giuseppe Girimonti Greco, Adelphi, Milano, 2015, pp. 125, euro 18.
di Elena Orsini

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