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Mio padre era fascista, il romanzo autobiografico di Pierluigi Battista

La guerra civile italiana non è mai finita. Ben oltre il 25 luglio, l’8 settembre e il 25 aprile, il nostro Paese conserva anche oggi un’anima divisa in due, che vede perpetuarsi due versioni contrapposte  relative alla prima metà del Novecento. Pierluigi Battista, firma del “Corriere della sera” e saggista, torna al mémoir dopo aver rielaborato, con impietoso coraggio, la malattia e la fine della moglie Silvia ne La fine del giorno. Stavolta lo scrittore affronta il complesso rapporto con il padre Vittorio, a sua volta impegnato per tutta la vita a misurarsi con la giovanile adesione al fascismo repubblicano sfumata in età matura nella militanza nel MSI.

La contrapposizione generazionale si acuisce con le scelte ideologiche del Pierluigi adolescente e universitario, le più lontane da quelle del genitore, che rappresenta da sempre al figlio una nostalgia del fascismo “come avrebbe dovuto essere” rispetto a quel che era stato. Sulla copertina di Mio padre era fascista, infatti, campeggia il Palazzo della Civiltà Italiana, emblema delle vestigia di quel razionalismo architettonico che resta la principale eredità culturale del regime. Anche Battista padre, a suo modo, è un monumento inesigibile, per la fedeltà a un’idea che vede nella legislazione antiebraica il punto di massimo scandalo, agli occhi di un Battista figlio che gradualmente, deposto il pregiudizio ideologico così forte negli anni Sessanta e Settanta, rielabora la figura paterna a partire dallo snodo storico del “rogo di Primavalle”, con l’assassinio dei fratelli Virgilio e Stefano Mattei, 22 e 8 anni, in un attentato di militanti di Potere Operaio. Battista senior aveva assunto la tutela della parte civile, avrebbe così potuto mostrare al figlio le carte che contraddicevano la versione innocentista propugnata anche da Franca Rame.

Pagine nere, di un nero più buio di quello della camicia mai rinnegata dal padre di Pierluigi, fedele a quel «siamo nati in un cupo tramonto» che apriva l’inno del partito neofascista. Parole scritte da Giorgio Almirante, amico e sodale di Vittorio Battista che di poco gli sarebbe sopravvissuto, leader accantonato dal successore designato in quel congresso di Fiuggi che lo scrittore avrebbe seguito da inviato, per un passo simbolico di riconciliazione postuma con il padre. Un gesto tardivo sul piano umano, forte e profondo però nel significato psicanalitico e quindi letterario, tra il fuoco e la fiamma.

Pierluigi Battista, Mio padre era fascista, 2016, Mondadori Strade Blu Saggi, p. 168, euro 17,50

di Elena Orsini

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