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Gianmaria Testa e l’invincibilità dei perdenti

Come ritrovare insperabilmente la strada di casa, così ebbe inizio l’intervista con il cantautore Gianmaria Testa, mentre mi avviavo ad una rassegnata eventualità di non riuscire a raggiungerlo telefonicamente per l’ottundente presenza della segreteria telefonica, fu lui all’estremo limite dell’inaspettato a far comparire la sua voce e a concedermi con estrema generosità il suo tempo e le sue parole, essenziali ed intense quanto le sue canzoni.

 

A.E. Si può senz’altro dire che lei sia uno dei più apprezzati cantautori italiani, soprattutto a giudicare dal grande successo che riscuotono i suoi concerti in giro per il mondo: Francia, Germania, Austria, Belgio, Canada, Portogallo e Stati Uniti. La sua musica sembra propagarsi come i cerchi concentrici di un sasso nello stagno, il passaparola quasi, essendo lei schivo e poco propenso a concedersi al circo mediatico dell’ambiente musicale. Che rapporto ha con il suo pubblico?
G.M.T.  Sono stato di recente a New York, dove ho suonato allo Joe’s Pub, il pubblico era  misto, qualche italo-americano, ma in genere mi sorprendo ogni volta di trovare la sala piena. La verità è che io non posso avere un rapporto con il pubblico. Ci sono più che altro dei singoli, che una sera finiscono per ritrovarsi insieme ad ascoltarmi, il resto lo fa la mia musica. E quella arriva dovunque e comunque, a dispetto di tutto, anche delle evidenti difficoltà linguistiche. A me capitava con Cohen fin dalla prima volta che ascoltai una sua canzone, pur non capendo il significato delle parole del testo, sentivo che quella musica era riuscita a sintonizzarsi in modo immediato con me. Sono sicuro che questo accade quando sei onesto nel raccontare le tue emozioni, se non sono balle la gente lo sente.

 

A.E. Lei viene da una famiglia di contadini nel cuneese ed ha dichiarato che il suo primo incontro con la musica è stato con quella popolare e la corale in chiesa. Quale musica ha segnato e influenzato maggiormente il suo stile?
G.M.T. Avevo 13-14 anni, in casa avevamo solo la radio e fu sicuramente dopo aver ascoltato Le Gorille di Georges Brassens che scoprii tutta la potenzialità espressiva delle parole in una canzone. Ho amato molto anche De Andrè.

 

A.E. In una delle sue canzoni lei parla delle donne nelle stazioni, lei che nelle stazioni ci ha lavorato per 25 anni, nonostante il cantatutorato impegnato, fino al 2007, quando ha deciso di licenziarsi. Ci son luoghi che evocano molte suggestioni, incontri, occasioni perdute, ne è sempre stato solo spettatore?
G.M.T. Non ho mai smesso di fare il capostazione se non nel 2007, quando presi la decisione di licenziarmi, perché  non ho mai considerato che scrivere canzoni fosse un lavoro, una professione né penso o mi ritengo un artista, semmai un artigiano. L’artista lo cambia il mondo, io lo racconto, basta. Si ne sono stato sempre e solo spettatore, guardavo le donne e immaginavo verso quali traiettorie viaggiavano, verso quali braccia, immaginavo le loro vite e i loro pensieri.

 

A.E. Parliamo del suo incontro con lo scrittore Erri De Luca, dalla cui collaborazione poi è nato anche uno spettacolo teatrale “Chisciotte e gli invincibili”,  chi sono oggi i Chisciotte?
G.M.T. Quando conobbi per la prima volta Erri, lo facevo da lettore dei sui romanzi e ne avevo soggezione, come capita con persone che dicono cose che vorresti essere capace di dire anche tu. Poi temevo che una volta conosciuto ne sarei rimasto deluso, che la persona non corrispondesse alle parole che scriveva. Per fortuna non fu così, lui è come le sue parole e siamo diventati amici fraterni. L’idea dello spettacolo fu totalmente sua, mi chiamò dopo due mesi che ci dicemmo che avremmo voluto collaborare insieme e mi disse solo “Cumpà, agg’ scritte”. Così mi precipitai con mia moglie a casa sua e rimanemmo estasiati da tanta bellezza e ispirazione. Oggi i Chisciotte sono i migranti senza dubbio, quelli che non hanno alternative, che muoiono in mare attraversando lo Ionio, eppure nulla li può fermare, sono quelli  che nonostante cadano ripetutamente a terra non riescono a fare a meno di continuare a rialzarsi, anche se ne seguirà un’altra sconfitta e un’altra ancora. Combattere contro tutto, anche contro il senso del ridicolo. Perché essere vincitori non è una qualifica eterna, chi va avanti nonostante tutto è davvero  invincibile.

di Anna Esposito

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