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Il suicidio di Mario Monicelli, l'ultima scena del regista

Mario Monicelli

Di Anna Esposito

Come se avesse voluto girare l’ultima scena, il regista e sceneggiatore Mario Monicelli,  affida gli ultimi istanti della sua vita ad un lucido folle guizzo irriverente ad anticipare un finale scontato e prevedibile, lanciandosi dal quinto piano dell’ospedale San Giovanni di Roma, dove era ricoverato per una grave malattia. Nessuna retorica di commiato avrebbe desiderato a far da corteo al suo ultimo congedo, che giunge inaspettato quanto beffardo. Così come suicida era morto il padre, Tomaso Monicelli nel 1946, giornalista e scrittore antifascista.

A molti par strano che ci si possa suicidare a 95 anni, molti di quelli che li contano per dedurne d’invecchiare, ma il suo pensiero limpidamente irrequieto non s’era mai pacificato con il passar degli anni, mai contraddire la propria natura, diceva, e così egli ha fatto fino alla fine, non rinunciando a far giungere alta la sua voce, il suo sguardo  critico, spesso caustico senza possibilità d’assoluzione, rivolto ad un’Italia stanca e compromessa, che resta immobile perennemente in attesa di un cambiamento di cui non riesce ad essere artefice, che vuol credere a promesse, che s’affida a speranze, che non sa reagire.

In una delle sue ultime interviste, che tanto scalpore suscitò, invitava i giovani o coloro che credevano d’esser tali, alla rivoluzione, alla ribellione, come ad affidar loro la missione di un riscatto della dignità del Paese, così come fecero i protagonisti eccellenti del film La Grande Guerra, nella scena finale. “Quando ho cominciato a dirigere film nel primo dopoguerra, l’Italia era alla fame, una società culturalmente sottosviluppata, biecamente cattolica e con una mentalità contadina, tutto al più piccolo borghese. A partire dal boom economico, l’esplosione della ricchezza stimolò gli aspetti più bassi dell’italianità, che trovò terreno fertile per sfogare la sua volgarità. Per noi della commedia fu una manna, per l’Italia un po’ meno. Raccontare questa evoluzione attraverso gli episodi che ho girato nel corso degli anni sarebbe una maniera divertente per ripercorrere la storia di un fallimento…” (Mario Monicelli in Sebastiano Mondadori, La commedia umana, ed. il Saggiatore, Milano, 2005, pag.175)

Il viareggino Monicelli realizzò nel 1934 il suo primo mediometraggio, I ragazzi della via Paal, con la collaborazione del cugino Alberto Mondadori, aveva appena 19 anni. Il suo primo lungometraggio è datato invece 1937, Pioggia d’estate, ma il vero e proprio debutto cinematografico arriverà nel 1949 con il film Totò cerca casa, cui seguiranno dei veri e propri capolavori indiscussi del cinema italiano, basti pensare a I soliti Ignoti dove a convolare a nozze è il talento comico di Totò, Vittorio Gassman e Marcello Mastroianni che daranno alla luce la più alta rappresentazione della “commedia all’italiana”. La Grande Guerra, riuscì senza retorica a restituirci una rilettura impietosa e tragicomica della Prima Guerra Mondiale che aveva da poco svoltato l’angolo della storia, e che gli valse il Leone d’Oro a Venezia nel 1959. Degno di menzione seppur molto sottovalutato Risate di Gioia (1960), film in cui una inarrivabile Anna Magnani interpreta Gioia, una donna che vive di avventure clandestine e Totò l’affiancherà nel ruolo di Umberto un truffatore che vive d’espedienti. Dietro la scrittura delle storie dei due la presenza dei racconti di Alberto Moravia.

Nei suoi film sfileranno tutti, i protagonisti anonimi e mediocri della storia della società italiana, che Monicelli come nessun altro saprà ritrarre illuminandone bassezze, miserie, innalzandoli sull’altare della commedia di cui fu indiscusso maestro insieme a Steno, Dino Risi e Luigi Comencini, utilizzando come pochi il registro tagliente dell’ironia. Girò circa 66 film e fu autore di piu’ di 80 sceneggiature, tra i suoi successi, impossibile non citare Guardie e ladri (due premi a Cannes nel ’51) che vide impegnato Ennio Flaiano, tra gli altri, alla scrittura della sceneggiatura; L’armata Brancaleone (1965). La ragazza con la pistola (1968) con la straordinaria interpretazione di Monica Vitti; l’epico film Amici miei del 1975 con cui  omaggiò l’amico Pietro Germi. Il drammatico e intenso Sordi nel film brechtiano del 1977, Un borghese piccolo piccolo. Fino alle produzioni degli ultimi anni, come Speriamo che sia femmina (1985) e Parenti serpenti (1993) dove tradurrà con ferocia e disincanto ipocrisie e cannibalismi della moderna società italiana. Infine Le rose del deserto nel 2006, liberamente ispirato a Il deserto della Libia di Mario Tobino e a Guerra d’Albania di Giancarlo Fusco.

Immancabile nei film di Monicelli la presenza della morte, di funerali, ma lui volle precisare che fu solo un’esigenza narrativa, nulla di personale. Su tutto la certezza che ciò che conta, l’arte, ci sopravviverà: “Il cinema non morirà mai, ormai è nato e non può morire: morirà la sala cinematografica, forse, ma di questo non mi frega niente”.


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