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Mostra su "Il re galantuomo", celebrazioni torinesi per l'Unità d'Italia

Palazzo Reale a Torino

Di Mariano Colla


Torino si prepara, con la  sobrietà tipica  del carattere piemontese, riservato e un po’ melanconico, alle celebrazioni dei 150 anni dell’unità d’Italia. Cartelloni, drappi, manifesti con le immagini dei grandi statisti e patrioti del Risorgimento,  costellano le vie del centro storico e decorano i suntuosi portici  di una Torino immersa nei primi grigiori autunnali. A distanza di un secolo e mezzo dagli eventi che fondarono il nostro paese, Torino ritrova parte dello smalto che la rese famosa in Europa e ne fece il centro di intrecci politici internazionali. I Savoia furono il  “collante” regale del progetto politico per una nuova Italia e Torino, nei suoi palazzi, testimonia la loro regale presenza.  Non poteva quindi mancare nel programma delle celebrazioni, una particolare attenzione a colui che impose il sigillo formale agli eventi storico-politici del 1861, ossia Vittorio Emanuele II.

Palazzo Reale, imponente struttura e armonica fusione  tra arte antica, medioevale, barocca e neoclassica ospita una mostra dedicata al I° re d’Italia, noto anche come il “re galantuomo”, pseudonimo assegnatogli dal popolo per la sua bonomia e, forse, per la scarsa  propensione agli  intrighi di palazzo. L’occasione fornita dalle celebrazioni dei 150 anni ha spinto le autorità piemontesi a risistemare i vecchi ambienti, ripulendoli e arieggiandoli, e a riproporre le atmosfere del tempo con un minuzioso ripristino dei dettagli della vita di corte, dagli arredamenti agli ornamenti e alle suppellettili dell’epoca risorgimentale. Gli appartamenti del principe ereditario, sui quali vorrei concentrarmi, esistevano  dal 1719 con Carlo Emanuele III e furono realizzati dall’architetto  Filippo  Juvarra.
L’architetto, per dare dignità regale  alle stanze del delfino, ideò una scala che univa l’androne del palazzo reale  direttamente agli appartamenti del principe ereditario.

Filippo Juvarra era siciliano e, un po’ per invidia e un po’ per le sue origini, non era particolarmente benvoluto dai cortigiani di casa Savoia, mentre i sovrani ne apprezzavano l’opera al punto tale da assegnargli gran parte dei lavori  di abbellimento della città. La storia racconta che i cortigiani avrebbero, maliziosamente, dubitato della capacità dello Juvarra di edificare   la scalinata, la cui costruzione, visti gli spazi angusti, presentava non  poche difficoltà realizzative. Lo Juvarra lavorò chiudendo i portoni di accesso al cantiere e li aprì solo ad opera ultimata. La scala in marmo bianco, aerea e leggera nelle forme, entusiasmò non solo i sovrani ma placò anche le maldicenze degli infidi cortigiani ai quali si riferisce il nome “scala delle forbici”, motivo disegnato sulla volta del pianerottolo, per alludere allo strumento più idoneo  per tagliare le lingue ai detrattori dell’architetto siciliano.

Compagna e moglie di Vittorio Emanuele, in quegli anni, fu la giovane  Maria Adelaide d’Asburgo Lorena, cugina del futuro re, il quale pare non fosse un amante del lusso, e che privilegiasse una vita all’aria aperta dove dare sfogo al suo amore per la caccia.  Tuttavia la sobrietà non è  una caratteristica delle grandi sale che si susseguono, varcato  l’ingresso, sino al salone di ricevimento o delle udienze. Arazzi della manifattura di Gobelins, antichi tappeti orientali o di manifattura fiamminga e francese, tappezzerie damascate, mobili intarsiati dalle mani di esperti artigiani, quadri  e suppellettili di pregio adornano il suntuoso appartamento. Nel silenzio ovattato delle nobili stanze aleggiano i fantasmi di coloro che fecero l’Italia. Nella sala da pranzo tutto è pronto per un suntuoso banchetto.   La luce artificiale irrora di un bianco anomalo la candida tovaglia di lino finissimo ricamata a mano, su cui brillano posate e piatti in  ceramica e porcellana. Bicchieri di varia foggia sono pronti a ricevere  i corposi vini piemontesi o il vino bianco del Reno, che, per la sua apprezzata torbidezza, veniva  servito in bicchieri colorati che ne nascondessero la scarsa limpidezza. I futuri sovrani non siedono agli estremi ma  a metà del lato lungo del tavolo, uno di fronte all’altra.  Si dice che in tale posizione strategica potessero “origliare meglio”, a destra e a sinistra, commenti, chiacchiere, pettegolezzi. Manca la calda atmosfera delle centinaia di candele che al tempo illuminavano il salone e che con più discrezione accarezzavano i volti delle signore  e i baffuti volti dei signori. Le sedie sono stranamente parche e modeste, unica caduta di stile in un mondo di cristalli,  argenti, porcellane, quasi a rimarcare la differenza di rango con la sottostante sala da pranzo del re in carica.

I sovrani, futuri o in carica, secondo una antica tradizione, dormivano in camere separate. Lui in un letto singolo, lei nel letto matrimoniale, perché era l’uomo che accordava  la propria “regal” presenza alla donna e nel di lei talamo si concedeva amorevoli amplessi, terminati i quali, a sua discrezione,  ritornava o meno nella sua stanza. Vittorio Emanuele II tuttavia non si poteva lamentare della propria alcova. Grazie all’eredità  dei suoi predecessori e ai raffinati interventi del solito Juvarra, la stanza del principe presenta pareti  ricoperte da antichi pannelli cinesi, ricchi di variopinti motivi naturali dipinti o intarsiati. Il letto alla francese pone le premesse per un rassicurante riposo.

I maligni dicono che Vittorio Emanuele , oltre alla caccia, amasse anche le donne, non tanto di nobile stirpe, quanto di più umile origine ma meno condizionate dall’etichetta nell’offrire i loro servigi. Se il letto nella sua stanza ne abbia ospitata qualcuna è difficile dirlo ma , fuori dal palazzo, in ambienti più dimessi, nessuno lo può escludere.  Lo studio, sulla cui scrivania ancora è posta la candida scultura della mano della moglie prematuramente scomparsa, è ancora impregnato dall’odore del fumo della pipa,  chimicamente ricostruito ad arte. Fucili da caccia, quadri con antiche battaglie condotte dei Savoia, poltroncine per funzionari, politici , militari,  arredano la stanza in stile relativamente sobrio.

Dal canto suo Maria Adelaide si è riservata ampi saloni in cui ricevere ospiti , dame di compagnia e quant’altro la nobiltà del tempo esigeva come facente parte del rango. Ancor più che negli ambienti del futuro sovrano, negli appartamenti di Maria Adelaide, artisti, artigiani, decoratori, tappezzieri, mobilieri si sono sbizzarriti nel comporre armonici luoghi di intrattenimento, dove la solerte servitù offriva il tè o la cioccolata con i pasticcini alle eleganti dame che, in qualche modo, dovevano trascorre la giornata. Un grande quadro di Maria Adelaide  chiude il percorso negli appartamenti dei principi. E’ un quadro estremamente realista che raffigura una donna con i già evidenti  sintomi del deperimento fisico che la porteranno nella tomba a soli 33 anni, sfiancata dalle otto gravidanze a cui il focoso principe l’ha sottoposta. La fragilità dell’espressione e il corpo leggermente ingobbito contrastano con la dovizia di quadri in cui cavalieri reali affrontano con cipiglio guerriero e baldanza orde di nemici. Un piccolo tocco di umanità a sigillare  un mondo di forme.

La sala da ballo annessa agli appartamenti reali  evoca le suggestioni delle feste ottocentesche. Dei manichini indossano gli abiti dell’epoca. Sembrano inizialmente immobili ma poi la musica verdiana del “ Va pensiero” si diffonde negli ampi spazi  e sembra dare vita  agli inanimati fantocci che ricamano, nella fantasia del visitatore,  una danza surreale. Le dame gonfiano in ampie volute gli abiti di seta e taffetà mentre i cavalieri impettiti, in reidingotte nera, timidamente stringono la vita  delle gentildonne mentre le note dolci e morbide accompagnano gli armonici movimenti dei ballerini in un’Italia che stava nascendo.

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