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Epepe, un grande romanzo passato inosservato di Ferenc Karinthy

Immaginate di sbagliare aereo e trovarvi in una città indecifrabile, dove si parla una lingua sconosciuta, dai caratteri ignoti, e nessuno degli abitanti capisce tutte le altre. E’ il cerimonioso incubo ordito dall’italianista ungherese Ferenc Karinthy, giornalista e campione di pallanuoto scomparso a 71 anni nel 1992, appena riscoperto da un editore attento alla Mitteleuropa come Roberto Calasso.

Nello scorso autunno, inosservato o quasi come non di rado accade ai grandi romanzi, Adelphi ha pubblicato la prima edizione italiana di “Epepe”, uscito a puntate nel 1970 su una rivista di Budapest e quindi sul finire dello scorso millennio in Francia. La storia del professor Budai, glottologo avviato a un congresso a Helsinki ma finito per errore in un altrove del tutto impervio, metaforizza con taglio cinematografico – scomparso Kubrick, il nume ovvio risponde al nome di Polanski, ma anche del Kaufman di “Synecdoche, New York” – lo smarrimento di ognuno, di fronte all’inconoscibile, all’oscuro che non vuole svelarsi. Lo studioso, dall’albergo in centro dove nessuno sa comprenderlo, esplora una metropoli che sembrerebbe organizzata come qualsiasi altra comunità, con palazzi e negozi e automobili e taxi, ma che non concede appiglio alcuno per essere scardinata dalla sua autoreferenzialità. Inutili sono i tentativi di farsi intendere, in tutte le lingue note, dagli interlocutori che svicolano, così come quelli di decrittare l’idioma locale.

Il canone della discesa agli inferi, dell’ingresso nel labirinto viene adottato da Karinthy per accompagnare Budai nei grandi magazzini, nei mercati, in un misterioso tempio e in tutti i siti urbani connessi da una rete metropolitana anch’essa inaccessibile nel senso. Per l’uomo smarrito sarà una giovane ascensorista l’angelo necessario, atta a infondergli un simulacro di salvezza prossima alla dannazione, prima di dileguarsi in vista di un finale drammatico e di un controfinale inatteso quanto essenziale. Nemmeno il nome ne saprà mai: Dede, Etete, Epepe? Il mistero non si dissolve nell’ultima riga della pagina 217, quasi tutta bianca: è forse una declinazione della solitudine che ci affligge, anche in mezzo agli altri.

 
di Elena Orsini
 
Ferenc Karinthy, Epepe, Adelphi, p. 217, euro 18

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