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Il Nobel per la Pace Liu Xiaobo che fa tremare Pechino

Il diploma rilegato del Premio Nobel per la Pace 2010 sulla poltrona vuota del vincitore, il dissidente cinese Liu Xiaobo, assente perché in carcere in Cina, dal presidente del Comitato per il Nobel, Thorbjoern Jagland

Di Valentino Salvatore

Quest’anno, protagonista della cerimonia di assegnazione del  Premio Nobel per la Pace 2010 è un’eloquente quanto surreale sedia vuota. Quella che avrebbe dovuto occupare il dissidente cinese Liu Xiaobo. Ma lui non si è potuto recare ad Oslo per la premiazione, perché in carcere. Sta scontando undici anni con l’accusa di sovversione: la sua colpa è aver promosso la Carta 08, in cui si chiedono libere elezioni, rispetto dei diritti umani e libertà di espressione in Cina. Ispirato alla Carta 77 dei dissidenti cecoslovacchi, il documento ha raccolto anche grazie alla diffusione sul web circa 10.000 adesioni. Liu Xiaobo, docente di letteratura in diversi atenei nel mondo, è ormai uno dei simboli per la lotta a favore dei diritti umani. Un instancabile attivista da decenni, tanto da partecipare anche alla protesta di piazza Tienanmen nel 1989.
Durante la consegna del premio al posto di Liu Xiaobo c’era l’attrice Liv Ullmann, celebre interprete dei film di Ingmar Bergman, che ha letto un suo scritto. Le stesse parole che Liu ha pronunciato davanti ai giudici che ne avrebbero pochi giorni dopo decretato la condanna, nel dicembre del 2009. “Non ho nemici e non covo odio”, queste le dichiarazioni di Liu Xiaobo, “nessuno dei poliziotti che mi sorveglia e dei magistrati che mi hanno condannato è mio nemico, l’odio può marcire grazie all’intelligenza e alla coscienza di una persona”. Ed ha espresso, nonostante l’arresto e le privazioni, la speranza di un cambiamento per il suo Paese: “Credo fermamente che il progresso politico della Cina non si fermerà e guardo pieno di ottimismo all’avvento di una futura Cina libera”.
Come gesto simbolico, il presidente di giuria Thorbjoern Jagland ha poggiato medaglia d’oro e diploma sulla sedia vuota. La storia di questo Nobel per la pace è travagliata e rischia di avere ricadute internazionali. A gennaio arriva la candidatura, sostenuta da personalità come il Dalai Lama, il regista Michael Moore, il vescovo Desmond Tutu e Václav Havel, proprio uno dei promotori della Carta 77. Nelle motivazioni, si riconoscono alla Cina “enormi progressi economici”, ma si fa notare che le libertà formalmente garantite nella Costituzione “in realtà non vengono messe in pratica”. Viene elogiato l’impegno di Liu per “il rispetto e l’applicazione dei diritti umani fondamentali”, lotta di cui è diventato “il simbolo principale”.

Ma il governo cinese non vede affatto di buon occhio questo prestigioso riconoscimento a Liu, uno degli animatori dell’opposizione interna. Dure critiche sono arrivate al comitato indipendente che assegna il Nobel. E’ stato persino richiamato l’ambasciatore norvegese per avere spiegazioni, sebbene la Norvegia non gestisca il conferimento. In ottobre, quando è arrivata la notizia che il premio sarebbe andato a Liu Xiaobo, sono scattati gli arresti domiciliari per sua moglie Liu Xia e i familiari. Lo scopo: impedire contatti con la stampa estera, o peggio, che qualcuno potesse recarsi ad Oslo per ritirare il Nobel.
La Cina ha puntato al boicottaggio della cerimonia, coinvolgendo altri paesi. Alla fine, hanno disertato anche Afghanistan, Algeria, Arabia Saudita, Cuba, Egitto, Filippine, Iraq, Iran, Kazakhstan, Marocco, Pakistan, Russia, Sri Lanka, Sudan, Tunisia, Venezuela e Vietnam. In bilico Colombia, Serbia e Ucrania, che poi hanno deciso di mandare i loro rappresentanti. Ma all’ultimo ha disertato pure l’Autorità nazionale palestinese. Il presidente statunitense Barack Obama, premiato proprio l’anno scorso, ha detto che Liu Xiaobo rappresenta “valori universali” e che “merita il Nobel più di me”. Catherine Ashton, alto rappresentante dell’Unione Europea per la politica estera e la sicurezza, ha lanciato un nuovo appello per la sua “liberazione immediata”. Il 10 dicembre, data della premiazione, è infatti l’anniversario della firma della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani da parte dell’Assemblea Generale dell’Onu, avvenuta a Parigi nel 1948. “In questo giorno consacrato ai paladini dei diritti umani in tutto il mondo”, ha affermato la Ashton, “il mio pensiero va a Liu Xiaobo, in prigione per aver espresso pacificamente il proprio punto di vista sulle riforme politiche in Cina”. Intanto, a poche ore dal conferimento, un centinaio di persone ha manifestato davanti alla sede dell’Onu a Pechino. Ma le autorità cinesi intensificano i controlli, e non solo quelli della polizia. Risultano infatti oscurate le emittenti che hanno ripreso la notizia, compresi i siti web, tra cui quello della stessa commissione del Nobel.
Da Pechino non hanno tardato a giungere  i commenti piccati della stampa governativa. Il Quotidiano del Popolo parla di “sinistre intenzioni dell’Occidente” e di “pochi galantuomini che stanno ad Oslo”, spalleggiati da “alcune potenze occidentali”. Il China Daily lo bolla come premio “insignificante” e irride quei “pochi in Occidente” che “condividono l’ingenua speranza che il premio Nobel ‘illuminerà’ i cinesi sul tema dei diritti umani e fomenterà i cambiamenti che essi desiderano”. Questo perché “certa gente è rimasta troppo assorta a coltivare le proprie fantasie per riuscire a comprendere che cosa accade davvero nel mondo reale”. Il Global Times, dal canto suo, scrive che in Norvegia è “in scena una farsa intitolata La Cina sotto processo” e che “stanno tentando di imporre alla Cina valori stranieri”. Anche su gran parte dei blog cinesi si leggono messaggi offensivi nei confronti del Premio Nobel, considerato uno strumento utilizzato dagli americani per punire lo sviluppo economico rampante della Cina.
Da Hong Kong pare invece spirare un altro vento: il quotidiano Apple Daily in prima pagina pubblica la foto della sala del Comune di Oslo e intitola: «Tutto il mondo guarderà quella sedia vuota». Il quotidiano South China Morning Post, ribalta le accuse sostenendo: «La Cina può incolpare solo se stessa per il fiasco del Nobel. La pesante reazione cinese è controproduttiva per la sua immagine e per il rispetto che chiede come superpotenza pacifica».

La decisa controffensiva mediatica cinese, derubrica l’assegnazione del premio Nobel a Liu Xiaobo a “farsa politica”, rivelando dunque un manifesto nervosismo. Forse perché questa reazione inconsulta non ha fatto altro che rendere più visibile tanto la dissidenza cinese, quanto le evidenti le contraddizioni in cui si dibatte il Paese di Mezzo. Stando alle informazioni fornite dal gruppo Chinese Human Rights Defenders, l’amico attivista Zhang Zuhua, gli avvocati democratici Li Fangping e Teng Biao, il giornalista Gao Yu e con loro alcune decine di persone considerate “pericolose” per le loro idee sono state costrette a lasciare Pechino e vivono costantemente sorvegliate.   Zhaoxu, portavoce del ministero degli Esteri cinese, ha chiaro in mente le peculiarità che renderebbero meritevoli di vincere il premio Nobel per la Pace, dovrebbero essere  persone che «si dedicano alla promozione dell’armonia nazionale, al consolidamento dell’amicizia fra i vari paesi, al processo di disarmo, evocando e diffondendo l’unione pacifica».

Liu è per la Cina solo un criminale, la sua libertà di pensiero da sempre considerata  sgradita e scomoda pareva essere stata neutralizzata, prima che i riflettori di tutto il mondo e l’assegnazione del Nobel creassero agitazione e imbarazzo a Pechino. Liu tra qualche giorno  compierà 55 anni,  ne avrà 65 quando potrà finalmente uscire di prigione.  Tanta paura fa alla Cina quel mite professore di letteratura, condannato per «istigazione alla sovversione», considerato da molti un pazzo: s’era messo in testa di diffondere il virus della democrazia.

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