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Nazì rifiuta di indossare il velo ai mondiali di scacchi e sfida Teheran

Una giovane campionessa fa discutere il placido mondo degli scacchi e le polemiche arrivano sui media internazionali. Tutto è pronto per il prossimo campionato mondiale femminile che si svolgerà a Teheran il prossimo febbraio. Ma c’è un piccolo problema: in Iran le donne sono obbligate in pubblico a coprirsi il capo con il velo islamico, in ossequio con la legge basata sulla sharia imposta dal regime degli ayatollah. Anche le straniere, anche quando giocano a scacchi. I delegati della FIDE (Fédération Internationale des Échecs) che approvavano la candidatura iraniana, l’unica sul piatto, non hanno avuto da obiettare quando è stata affrontata la questione.
Nessun paese – nemmeno gli Stati Uniti – ha fatto rimostranze e nessun atleta si sarebbe fatto sentire. Ma Nazì Paikidze-Barnes, una ventiduenne di origine russo-georgiana che vive negli Usa e si è affermata negli anni come campionessa a livello internazionale, ha lanciato un esplicito invito a boicottare i giochi. Con un gesto che rischia di danneggiare la sua promettente carriera come scacchista di professione, avviata fin da bambina.
“Penso che sia inaccettabile ospitare un campionato mondiale in un luogo dove le donne non godono dei diritti fondamentali e vengono trattate come cittadine di serie B”, ha dichiarato. Paikidze ha avviato una petizione su Change.org per chiedere alla FIDE di riconsiderare la decisione, optando per un altro paese oppure lasciando alle sfidanti la libertà di non indossare il velo. Nel suo stesso codice infatti la federazione afferma di rigettare trattamenti discriminatori, anche per ragioni religiose o per motivi sessuali. Far gareggiare le donne in Iran le espone a rischi, spiega la giovane: la polizia religiosa potrebbe punirle se non si attengono al dress code “modesto” o se parlano a favore dei diritti umani; inoltre, se arrivano da alcuni paesi come gli Usa potrebbero attirare l’attenzione di malintenzionati, come avvertono le agenzie di viaggio. Il suo appello è stato rilanciato da un noto campione inglese, Nigel Short. Altre scacchiste hanno detto invece che si adegueranno a quel costume, pur manifestando un iniziale disagio.
Il dibattito è aperto, con pro e contro. Sono arrivate critiche alla giovane da chi la accusa di essere ostile e non comprende la cultura religiosa di queste nazioni. Ha ribattuto di non essere “anti-islamica” ma a favore della libertà di scelta: “non ce l’ho con la religione o il popolo iraniano, ma con le leggi del governo che restringono i miei diritti in quanto donna”.
Le iraniane hanno espresso la loro delusione, sostenendo che questo forfait tolga delle opportunità alle donne stesse di affermarsi nel paese musulmano. Come le altre sportive che con la nazionale partecipano alle competizioni nel mondo, quali le Olimpiadi, si ritrovano tra l’incudine e il martello. Devono sottostare ai rigidi standard nel vestiario anche in trasferta, per non subire conseguenze in patria, con tanto di hijab e vestiti lunghi che le fanno apparire goffe e ne penalizzano le prestazioni. L’Iran non brilla per posizionamenti: solo a Rio la lottatrice di taekwondo Kimia Alizadeh ha conquistato la prima medaglia al femminile, di bronzo.
Mitra Hejazipour, ventitrenne campionessa di scacchi iraniana, ha criticato il boicottaggio di Paikidze-Barnes, sostenendo che si tratta del “più grande evento sportivo che le donne abbiano mai visto in Iran”, “di una opportunità importante per le donne” di “mostrare la nostra forza”. Le donne iraniane hanno pochi strumenti tollerati dai guardiani della morale per affermarsi e tentare una faticosa strada di emancipazione fuori dalle mura domestiche: uno di questi è lo sport.
Questa posizione è comprensibile, benché condizionata da un certo patriottismo interessato. Se Paikidze viene dipinta come pregiudizialmente ostile perché vive negli Usa ed è sposata con un americano, non si capisce perché le iraniane o le musulmane debbano essere immuni dalla partigianeria nazionalistica o confessionale.
Ma bisognerebbe chiedersi se assecondare le posizioni illiberali di certi paesi sia davvero la soluzione migliore per favorire la sperata evoluzione interna verso l’affermazione dei diritti. In realtà, decenni di accomodazionismo, motivato anche dalla necessità di fare affari con certe nazioni, hanno portato all’opposto, con il consolidamento di regimi “amici” dai quali si tolleravano violazioni dei diritti umani. Di più, il clima di tolleranza che giustamente caratterizza l’Occidente porta le componenti più integraliste ad approfittarne, riversando la propria influenza all’esterno e al contempo rimanendo ermeticamente chiuse all’interno. Così ci si ritrova con musulmani che nei paesi europei invocano la libertà ad esempio per indossare il velo nelle versioni più degradanti, mentre non esiste alcuna reciprocità: gli occidentali non possono toglierlo, in certi paesi. Un gioco dei diritti a somma negativa.
Stiamo parlando di una “repubblica islamica” dove il controllo del governo è molto stringente: chi rappresenta il paese nelle discipline sportive deve soppesare bene le parole per non passare dalla parte dei disfattisti, col rischio di perdere una certa posizione in un mondo dominato dai maschi, o il visto per recarsi all’estero per gareggiare, o persino di avere problemi con la giustizia (come avvenuto a una tifosa con doppia cittadinanza anglo-iraniana colpevole di voler presenziare a incontri in cui gareggiavano uomini).
Anche lo sport è in Iran un veicolo di propaganda nazionalistica. E il fatto di costringere atlete straniere – ma a anche dignitari e rappresentanti di istituzioni internazionali durante incontri formali – a indossare il velo mentre si trovano lì rappresenta una vittoria per il regime. Non certo per le donne. Sono infatti piccoli gesti di protesta civile come quello della sportiva statunitense, anche se appaiono come una fastidiosa forma di ingerenza, che possono sollevare il velo, stimolare e provocare una riflessione delle componenti più recettive della società, portare all’attenzione del mondo che esiste un grave problema sul fronte dei diritti. Non più risolvibile con l’omertà comunitaria, il vittimismo verso le intromissioni occidentali o fumose e orgogliose illusioni di evoluzione esclusivamente autarchica. 
 
di Valentino Salvatore
 

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