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"The Founder", l'uomo che costruì l'impero del fast food

Sembra essere “una intuizione geniale” quella di Ray Kroc, “The Founder”, il fondatore dell’impero McDonald’s.
Non come il suo tavolo da cucina pieghevole o i suoi bicchieri di plastica. Non come il pesante Multimixer “a 5 mandrini” che sentiamo decantare nel primo monologo in primissimo piano di Michael Keaton, che ci regala un’altra prova straordinaria dopo il il Riggan Thompson di “Birdman” e il Robbie Robinson di “Spotlight”.
Quello del Multimixer è per Ray un copione che si ripete all’infinito, tra un drive-in restaurant e l’altro, tutti dal servizio lento e impreciso.
“Perseveranza” è il motto del training autogeno da commesso viaggiatore, che Ray ascolta come un mantra nella sua stanza d’albergo, dal giradischi portatile. Poi arriva l’incredibile ordine di ben sei mixer, che poi diventano otto, da un drive-in di S. Bernardino, California. McDonald’s si chiama, come i fratelli Mac e Dick che lo hanno creato. Fuori una coda che non finisce mai e poi la sopresa di un servizio veloce ed economico.
“Velocità” è la parola d’ordine dei fratelli McDonald’s, che hanno creato una catena perfetta, “un ottimo hamburger, dalla griglia alla consegna in 30 secondi”.
“Voglio ascoltare la vostra storia!”, li esorta Ray invitandoli a cena. Ed è la storia straordinaria di un sogno, una storia di dedizione e ingegno quella di Mac e Dick, nata da un idea che a Ray “sembra partorita dalla mente di Henry Ford”.
John Carroll Lynch e Nick Offerman sono un degno contraltare a Michael Keaton, nell’interpretare i fratelli McDonalds, così com’è efficace il bolero di Carter Burwell che, col suo crescendo, accompagna il racconto della realizzazione del loro sogno, che diventa quello di Ray: non ci dorme la notte, vuole assolutamente farne parte. E alla fine arriva l’idea: “affiliazioni”. Ma i McDonald’s c’hanno già provato e rinunciato: nelle filiali è impossibile controllare la qualità del prodotto, che per Mac e Dick è quasi un’ossessione. Ma Ray sa coltivare la perseveranza: la soluzione architettonica degli “archi dorati” inventati da Dick, che vede nella filiale di Phoenix, sono una specie di visione, e il nome McDonald’s gli suona perfetto: “Fatelo per la Nazione – li esorta – fatelo per l’America!”.
Insieme alla croce e alla bandiera quell’arco potrebbe svettare in tutte le città d’America, McDonald’s potrebbe essere “la nuova Chiesa americana, aperta sette giorni alla settimana”.
Perseveranza. Convinti i McDonald’s, Ray rischia tutto, anche la derisione dei soci del golf club, anche lo sguardo triste della moglie Ethel (Diane Lane): “Non è ora di godersela un po’? Quando ti fermerai?”.
E’ nel ’54 che Ray apre in Illinois il suo primo McDonald’s in franchising, usando la stessa ossessione dei creatori per la qualità dei prodotti e del servizio e scegliendo accuratamente i suoi collaboratori.
E poi ne apre altri ancora: molti. Fino all’arrivo a Minneapolis, dov’è accolto con ogni onore. Quello è il momento della svolta: già si spaccia per il creatore del marchio. E comincia a perdere ogni freno inibitore: non ha alcuno scrupolo neanche a prendersi la donna del socio locale, ambiziosa quanto lui. E’ lei che ha l’idea di fare il gelato e i frappè con i prodotti in polvere per ridurre le spese di refrigerazione. “L’ambizione è l’essenza della vita”, e i veri McDonald’s di ambizione non ne hanno, loro non vogliono neanche sentir parlare di frappè fatti senza il latte. Bisogna liberarsi di loro e del contratto con il quale lo tengono vincolato alle regole di San Bernardino.
“Un contratto è come un cuore – dirà loro – può essere infranto”. In fondo è così anche per quello di Ethel. Il sogno romantico dei due fratelli che ci aveva incantato all’inizio e che credevano essere anche il sogno di Ray, alla fine s’infrange nell’impatto con gli affari, perché “negli affari, se uno affoga, gli devi versare l’acqua in bocca”. Prima delle scene di repertorio del vero Ray Kroc sui titoli di coda, il regista John Lee Hancock chiude il suo magnifico racconto come lo aveva cominciato, sul primo piano di Michael Keaton.
“Come si fa a fondare un impero”, si chiede retoricamente Ray. “Con la perseveranza” certo, ma anche con l’assenza di scrupoli e la perdita di ogni senso etico, che finisce per coinvolgere anche la sfera personale e gli affetti; che può arrivare a far venir meno la parola data e a compiere l’atto forse più spregevole: derubare gli altri delle proprie idee e perfino del proprio nome.
di Dino Geromel (Tutti al Cinema Appassionatamente)
 
The Founder, diretto da John Lee Hancock, 2017

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