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Kill me please: come ridere della dolce morte

di Valeria Ferraro
Quando una commedia diverte e appassiona senza appesantire, e apre una riflessione che accompagna anche una volta fuori dal cinema, allora più che mai ha meritato di essere la vincitrice dell’ormai prestigioso premio Marc’Aurelio come miglior film all’ultima edizione del Festival Internazionale del Cinema di Roma.
La scelta del nome della commedia cadde dapprima su “Dignitas”, dal nome della clinica svizzera per la morte volontaria assistita, per passare al più comunicativo “Kill me please”.
Dopo essere stata scenario della dolce vita, la capitale premia ora la “dolce morte”, tema scottante quanto attualissimo dell’eutanasia.
Visto che tutti prima o dopo dobbiamo lasciare la vita, il dottor Kruger  aiuta chi decide di abbandonarla volontariamente e prematuramente, pianificando la morte come forse non si è riusciti a fare con la propria esistenza.
Non manca tuttavia un tentativo di “riportare alla vita” gli aspiranti suicidi , fallito il quale, si può decidere di intraprendere la morte assistita,  accompagnata dalla possibilità di poter esaudire un ultimo desiderio, un pranzo speciale, una squillo, o qualche altra fantasia.
Ma nelle isolate montagne dove il dottore ha inteso realizzare il suo sogno del suicidio perfetto, è ancora la morte a decidere quando colpire, ponendo così fine al falso progetto di “sano suicidio” e rivelando un piano finanziario cinico e spregiudicato che si nasconde dietro la falsa morale della dignità della morte.
Due temi scomodi, ammessi entrambi, quelli del suicidio permesso e per di più assistito, proposti con i toni grotteschi della commedia noir, provocatoria e irriverente, mai offensiva o polemica, che vince forse perché diverte e non disturba con un argomento tanto discusso e poco affrontato politicamente oggi nel nostro paese, dove, nel frattempo, tanti malati terminali lottano per poter morire.
Il regista francese Olias Barco accoglie il premio più importante della rassegna con molta ironia: “è un film punk ed è stato premiato da una giuria punk. Ringrazio la Detassis, direttore artistico del festival, per essersi presa il rischio di mettere il mio film in concorso”…Perché Barco stesso sa di proporre una pellicola scomoda, francese di nascita che per essere prodotta ha bisogno di migrare in Belgio.
E dall’ironia della morte all’ironia della sorte, il film vince a Roma poco prima della pubblicazione del libro di Mina Welby, dal titolo “Una vita vissuta dalla porta d’uscita”, col quale cerca di portare avanti la battaglia del marito per il riconoscimento dell’eutanasia e del testamento biologico.
Ma Barco non trascende, e danza lentamente sulla vanità dell’ego con un bianco e nero d’artista e un ritmo tutt’altro che incalzante, non sulle note di un commento sonoro che sceglie di omettere completamente.
Ma l’originalità non si ferma alla sola commedia e sfocia durante la premiazione al festival, che si conclude allegramente con  Zazie de Paris, protagonista del film che intona un’appassionata Marsigliese, dedicata a Nicolas Sarcozy e con le battute del regista, che ride divertito quando gli chiedono se il bianco e nero del film derivi da una scelta stilistica e così risponde:”non c’entra lo stile, la pellicola in bianco e nero costa molto meno”.
E non si preoccupa delle reazioni della Chiesa, anzi, una rivista cattolica in Francia ha capito lo spirito del film, e dedicato grande spazio.
E conclude rivelando le vere intenzioni del film: “io ho le mie fragilità, faccio un film sulla morte che è un inno alla vita”.

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