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Moonlight, nei ghetti neri arriva solo la luce della luna

Le proteste sollevate lo scorso anno dalla comunità di colore del cinema per l’assenza di neri nella notte degli Oscar, peraltro prive di una reale giustificazione, potrebbero trovare quest’anno soddisfazione grazie al quasi esordiente Barry Jenkins e al suo struggente “Moonlight”, peraltro già vincitore del Golden Globe per il miglior film drammatico. A consolidare questa possibilità, dando modo all’Academy di dare un segnale, c’è poi anche l’elezione di Trump, così avversata nel mondo del cinema. Ma non è certo questo il motivo per il quale – prima di aver visto “Manchester by the sea” – tifiamo decisamente per il film di Jenkins, fra quelli papabili ad essere incoronato “miglior film dell’anno”. Basato su un’opera teatrale (“In Moonlight Black Boys Look Blue” di Tarell Alvin McCraney), “Moonlight” racconta una storia decisamente “black”, attraverso le vicende di Chiron: nero, povero e per giunta omosessuale. Il regista sviluppa la storia in tre capitoli che intitola: “Piccolo”, “Chiron” e “Black” (che però avrebbe potuto anche intitolarsi “Blue”, così come appare la pelle di un nero al chiar di luna). Ognuno dei tre capitoli rappresenta un momento della vita di Chiron, segnata inesorabilmente dal destino che tocca alla maggior parte dei neri delle periferie americane. Qui siamo a Miami e lo Chiron bambino, che tutti chiamano “Piccolo” (a interpretarlo Alex Hibbert), ma anche “frocio”, sembra predestinato perfino nell’identità sessuale che ancora deve scoprire.
Il rapporto con la madre tossica (Naomi Harris, candidata all’Oscar) e il bullismo dei compagni di scuola gli precludono quell’infanzia felice a cui tutti avrebbero diritto. Condizioni che lo accompagnano anche nell’adolescenza (è Ashton Sanders a impersonarlo), dalla quale uscirà nel modo più assurdo per una persona buona e sensibile come lui, ma più frequente per quelli nella sua condizione: il riformatorio.
Ancora bambino, due saranno gli incontri importanti nella sua vita: lo spacciatore dal cuore d’oro Juan (lo strepitoso Mahershala Ali per il quale parteggiamo come migliore “non protagonista”) e l ‘unico amichetto Kevin (Jaden Piner prima, Jharrel Jerome da adolescente e André Holland nella terza parte), dal quale sarà profondamente deluso, ma che alla fine gli mostrerà la via di una possibile redenzione. Da adulto è Trevante Rhodes a dar corpo a Chiron.
A parte un paio di occasioni in cui Jenkins si lascia andare a qualche autocompiacimento (la steadycam che gira vorticosamente intorno a Juan e al suo spacciatore all’inizio del film, e qualche immagine sfocata di troppo, sempre nella prima parte), il regista mostra una padronanza del mezzo e un rigore invidiabile. Non c’è un’inquadratura da cui non si possa estrapolare una fotografia da esposizione, eppure tutto è così naturale e così vero da sembrare casuale.
Ma al di là della grande qualità tecnica, che giustifica le candidature di James Laxton per la splendida fotografia (l’Oscar dovrebbe essere scontato), di Joi McMillon e Nat Sanders per il montaggio (che dovrebbe però andare al film di Mel Gibson) e di Nicholas Britell per la colonna sonora (che non ha niente da invidiare a “La la land”), quello che primeggia è sicuramente la sceneggiatura del film che lo stesso Jenkins firma con l’autore del dramma teatrale Tarell Alvin McCraney.
Mai come in questo film si è riusciti a parlare della condizione dei neri americani, senza far vedere un solo bianco.
di Dino Geromel (Tutti al Cinema Appassionatamente)
“Moonlight”, 2017, di Barry Jenkins, Lucky Red 

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