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Il post punk di Peter Hook and The Light sul palco del Quirinetta

Il Quirinetta riapre il suo sipario in grande stile.
Lo fa riportando nella capitale, dopo circa 3 anni, un pioniere della musica elettronica degli anni Ottanta, ma ancora prima il fondatore di una delle band inglesi più influenti nella storia della musica, per generazioni e generazioni a venire. Stiamo parlando di Peter Hook, fondatore dei Joy Division prima ed in seguito dei New Order.
Peter si fa attendere sul palco, la folla acclama, ma ad uno del suo calibro si perdona tutto.
Si trova in Italia insieme alla sua nuova band (Peter Hook and the Light) dove suona col figlio e con membri del suo progetto più recente Monaco, con la quale ha avuto un discreto successo mediatico, per riproporre Substance, una raccolta di hits da entrambi i Joy Division e i New Order, che se anche molto diversi (non necessariamente chi ha amato le atmosfere cupe dei primi apprezza la dance dei secondi e viceversa) trovano qua un terreno comune, quel modo di suonare il basso tipico di Hooky – così si chiama Peter per gli amici – che fa ora sembrare due mondi paralleli che si sfiorano ma non si incontrano, forse un pò più vicini.
La prima parte del concerto è dedicata interamente ai New Order. Si comincia con una seducente In A Lonely Place ed a seguire ancora alcuni brani tratti dall’album Movement del 1981, Procession, Cries and Whispers per citarne alcuni. Proseguendo a colpi di hits prelevando da tutto il repertorio, da Low Life (1985) a Power, Corruption and Lies (1983) con la all-time-favorite Blue Monday, passando per Brotherhood (1986) in una rollercoaster di sentimenti diversi.  La folla, rapita dalle basi elettroniche e dal synth, stenta a stare ferma, nelle prime file le mani si agitano e con un pò di fantasia, sembra di stare in un nightclub dark-goth di New York o di Hollywood di metà anni 90.
Ancora scossi dalle vibes del repertorio dei New Order, Peter Hook and the Light ci lasciano per poco, promettendo un’encore. Lasciamo le periferie americane e torniamo mentalmente al Quirinetta.
La band risale sul palco e decide di regalarci un altro viaggio. Siamo nella periferia di Manchester questa volta, negli anni Ottanta, fumo e fabbriche, desolazione e depressione post-industriale, ed Ian Curtis è ancora tra noi. E’ il momento dei  Joy Division.
No Love Lost è la prima canzone della lista, a seguire Novelty, Komakino, These Days. E’ un continuo senso di incombenza, di emotività, di disagio e  di nostalgia. E’ la parte più intima di noi. Ci muoviamo sapientemente tra Unknown Pleasures, Closer e An Ideal for Living. Siamo ormai a circa due ore di concerto, e il continuo coinvolgimento emotivo ci ha in qualche modo affaticato. Lo sa bene Peter Hook che con una mossa sagace tira fuori dal cappello magico una combo micidiale: Transmission, e a seguire d’un fiato She’s Lost Control. E’ il momento clu della serata. La folla dimentica la stanchezza e balla ad occhi chiusi, senza fermarsi. Ognuno per sè. Ognuno nel suo viaggio interiore. Alcuni movimenti convulsi, così come faceva Ian, quando ballava sbeffeggiando la sua epilessia. La musica può tutto. Azzarda perfino contro la morte.
Siamo in direttura d’arrivo. Trenta canzoni e praticamente l’essenza della musica degli ultimi trent’ anni. A volte lo si dice troppo spesso e quasi perde d’intensità, ma questo è davvero il caso, abbiamo davanti una vera leggenda vivente.  E quale miglior modo di avvalorare questa teoria, se non concludendo con una delle canzoni più belle e commoventi di sempre: Love Will Tear Us Apart.
Trent’anni in trenta canzoni. La musica non conosce matematica. Ma sa molto bene come trafiggere un cuore.
di Giorgia Atzeni
Foto di Serena De Angelis
 
 

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