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Jafar Panahi, il regista iraniano condannato a sei anni di carcere e 20 di silenzio

Il regista iraniano Jafar Panahi

Di Valentino Salvatore
Cinque anni di reclusione, in quanto accusato di appartenere ad una organizzazione illegale con lo scopo di sovvertire lo Stato. Un altro anno inflitto per propaganda sovversiva e lesiva dell’immagine della Repubblica. Non stiamo parlando di un pericoloso terrorista, ma del regista iraniano Jafar Panahi. Evidentemente, per la Repubblica islamica dell’Iran la macchina da presa imbracciata da una mente critica può fare più danni di un kalashnikov in mano ad un terrorista esaltato. Non solo, a Panahi è stato imposto il divieto di dirigere film di qualsiasi tipo, persino di scrivere sceneggiature, concedere interviste alla stampa (anche internazionale). Gli sarà proibito di recarsi all’estero. A meno che non sia per motivi di salute o – perché le tradizioni vanno sempre rispettate – per recarsi in pellegrinaggio alla Mecca. Anche se, specificano i giudici, dietro cauzione.
Un duro colpo alla cultura iraniana di questi anni, che vede proprio in Panahi uno dei suoi esponenti più promettenti e riconosciuti a livello internazionale. Il cineasta, classe 1960, fa la gavetta nella tv e si segnala come assistente ad Abbas Kiarostami per Sotto gli Ulivi (1994). L’anno dopo col suo film Il palloncino bianco, commovente favola urbana che ha per protagonista una bambina, si aggiudica la Caméra d’Or al Festival di Cannes. Vince il Pardo d’Oro alla kermesse di Locarno nel 1997 con Lo specchio, dove cinema e realtà si confondono in maniera spiazzante. Nel 2000 conquista il Leone d’Oro a Venezia con Il cerchio, pellicola che affronta il tema della difficile condizione femminile in Iran raccontando storie di donne reiette e in fuga dall’oppressione. Non manca tre anni dopo il riconoscimento della giuria di Cannes per la sezione Un certain regard con Oro rosso, pungente noir che denuncia con realismo le profonde differenze sociali del suo Paese. Così scomodo che ne viene vietata la diffusione in patria. Stessa sorte per il successivo Offside, di nuovo sul tema delle discriminazioni contro le donne dietro la metafora calcistica, che ottiene il Gran premio della giuria del festival di Berlino, nel 2006. Con la sua regia, Jafar Panahi sa cogliere le contraddizioni della società iraniana, in bilico tra modernità come fuga e rigido tradizionalismo. E lo fa portando sullo schermo una umanità semplice e dolente, il tutto con una sensibilità cinematografica quasi pasoliniana.
Non a caso il suo lavoro di regista è indissolubilmente legato all’impegno politico, per l’affermazione di un Iran più aperto e democratico. E’ esponente del Consiglio nazionale della pace in Iran, che si impegna per allontanare lo spettro della guerra e al tempo stesso per abolire le sanzioni. La nascita di questa associazione è stata promossa nel luglio del 2008 dal Centro per la difesa dei diritti dell’uomo del premio Nobel Shirin Ebadi. A causa del suo attivismo, Panahi viene arrestato una prima volta nel luglio del 2009. Il regista viene preso mentre si trova nel cimitero Behesht-e-Zahra di Teheran per la commemorazione di Neda Agha-Soltan, giovane uccisa in una manifestazione seguita alle discusse elezioni che hanno riconfermato il presidente Mahmoud Ahmadinejad. Rilasciato, gli viene però imposto di non lasciare l’Iran. Per questo non può raggiungere Cannes per il festival del 2010, dove era stato scelto come membro della giuria. Il responsabile del festival, Thierry Fremaux, ha simbolicamente lasciato una poltrona vuota tra i giurati dell’ultima edizione.
La polizia del regime gli è però sempre addosso. Viene arrestato ancora una volta a febbraio proprio nella sua casa di Teheran insieme a famiglia, amici e colleghi. Agenti in borghese fanno irruzione e portano via un quindicina di persone. Finisce dentro anche un altro promessa del cinema iraniano, il regista Mohammad Rasoulof. Sono reclusi nel famigerato carcere di Evin, a Teheran. Solo dopo diverse settimane il ministro per la Cultura e l’Orientamento Islamico spiega il motivo dell’arresto: Panahi è infatti ritenuto colpevole di voler girare un lungometraggio sulle elezioni presidenziali del 2009, giudicato antigovernativo. Il cineasta protesta con uno sciopero della fame e viene rilasciato dietro cauzione a fine maggio. Ma il regime iraniano non molla e arriva la pesantissima condanna del tribunale, il 20 dicembre. In totale, sei anni di reclusione come sovversivo, ma soprattutto pesano i divieti, con lo scopo preciso di troncarne l’evoluzione artistica e di silenziare una voce scomoda. Per ben vent’anni non potrà scrivere o dirigere film, rilasciare interviste o recarsi all’estero. Sei anni anche per l’amico Rasoulof. A Jafar Panahi sarà impedito di espatriare per presenziare al prossimo festival del cinema di Berlino, a febbraio. Era stato invitato da Dieter Kosslick, il direttore della kermesse, a far parte della giuria. Lo ha chiarito in maniera lapidaria il viceministro della Cultura per il Cinema, Javad Shamaqdari.
Il caso Pahani ha attirato l’attenzione del mondo del cinema, con una mobilitazione generalizzata da parte di attori e registi. Sono soprattutto i francesi a muoversi, come il filosofo Bernard-Henri Levy (già in campo contro la lapidazione di Sakineh Ashtiani), l’attrice Juliette Binoche, il regista Costa-Gavras e il direttore della Cineteca francese Serge Toubiana, oltre al già citato Fremaux. Per il regista Antonio De Palo la condanna è «prima di tutto una questione universale». Infatti «la privazione del linguaggio, l’impossibilità derivante del poter dire, del poter manifestare il proprio sentimento, è per un artista una condanna a morte». Perché impedisce «l’espressione di un punto di vista utile alla comprensione di un mondo culturale arido, impenetrabile», continua. Ma anche il cinema americano si fa sentire, con Steven Spielberg, Francis Ford Coppola, Martin Scorsese, Sean Penn. Non solo registi e attori però si interessano alla sorte di Panahi. Hamid Dabashi, docente della Columbia University, paragona la condanna inflitta al cineasta alla distruzione della monumentale statua del Buddha da parte dei talebani in Afghanistan. Lo scrittore Hamid Ziarati ha sentito il regista telefonicamente: «mi dice che se il mondo vuole fare qualcosa per tutti i cineasti iraniani deve agire ora o mai più, perché hanno condannato non solo lui ma tutta la cinematografia iraniana». Se il verdetto tra un mese sarà confermato, «per lui – incapace di chiedere clemenza, visto che non ha commesso nessun reato, e la Repubblica islamica incapace di concedere clemenza, visto che non ne ha mai avuta per nessuno – sarà la fine».
Anche in Italia, l’associazione 100Autori ha lanciato un appello invitando le autorità italiane a attivarsi. «Non permetteremo che questa palese ingiustizia ai danni di un nostro collega, finisca sotto silenzio», si legge nel comunicato, «tanto più nella consapevolezza che altri cineasti, anche più giovani e meno noti, da tempo subiscono, in Iran come in altri paesi, altrettanta violenza». Si invita quindi a firmare la petizione on line per il rilascio di Panahi, di modo che questi sia «nuovamente un cittadino libero, come uomo e come cineasta» Petizione promossa, tra gli altri, dal Festival di Cannes, quello di Locarno, la Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia. Il regista Maurizio Sciarra, che rappresenta l’Italia nella Fédération Européenne des Réalisateurs de l’Audiovisuel, lancia la provocazione. Per sensibilizzare l’opinione pubblica sul caso Panahi invita le tv a mandare in onda i film del regista iraniano e a parlare delle sue opere. Nei prossimi giorni sono previste proiezioni in alcune sale e manifestazioni di sostegno. Nella speranza che la prossima poltrona non sia lasciata vuota. E che, magari, si possa vedere al cinema il suo prossimo film, oltre a quelli già girati.

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