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“ Cunto”, sirene e fil di ferro: da Intragallery il teatro diventa magia

di Lidia Monda
Ci sono cose che non sempre si possono spiegare. Uno le sa e basta.
Capita soprattutto con le cose che sai dalla nascita, perché fanno così parte di te che nemmeno sai di averle dentro. Ti ci hanno allattato e ora fanno da malta a tutte le tue cellule. Insomma sono te,  e che tu lo sappia o no, ti accorgi di averle solo quando ci inciampi e ci finisci dentro.
Il canto delle sirene è una di queste. Lo riconosci a pelle un canto di sirena, perché ti ipnotizza, ti resta dentro anche nei giorni successivi, e non smetti di pensarci anche quando i giorni si accumulano e ciò che  resta è un retropensiero adagiato sul fondo della giornata. Ogni tanto riemerge, e pensi che sì, diamine, vorresti sentirlo ancora. Ed è quello che succede a me quando penso a Cunto, una storia sospesa a mezz’aria, raccontata da Antonella Romano e Rosario Sparno qualche giorno fa, per la regia di Rosario Sparno e i costumi di Alessandra Gaudioso. Ero da Intragallery, che già di per sé è un luogo magico, una galleria d’arte contemporanea a Chiaia, nel salotto di Napoli, dove Rosa Francesca Masturzo e Annamaria De Fanis intrecciano persone, arti ed energie, creando miscele sempre nuove, sempre stimolanti, che sanno di buono per l’effetto positivo che ti lasciano nelle settimane seguenti.
Insomma, mi sono imbattuta in questa storia che più che un racconto è un incanto, anzi, addirittura un canto, di sirena appunto. E noi che siamo tutti figli di una sirena lo abbiamo riconosciuto subito, perché è nel nostro dna, perché CUNTO parla ‘a’ noi ma anche ‘di’ noi, perché rievoca suoni ancestrali e antiche melodie impastate di lava,  di quando ancora eravamo mezzi pesci e mezzi figli di un vulcano, e Megaride era solo un isolotto a forma di uovo. Ora, Antonella e Rosario, che sono un po’ pesci e un po’ figli del vulcano anche loro – devono esserlo per forza, sennò non si spiega- ci hanno preso per mano e ci hanno portato in Sicilia, in una campagna assolata,  in contrada Ninfa, per l’esattezza. Un luogo strano, in verità, a tratti sinistro , per via di alcune voci che si rincorrono su di esso. È un luogo di mezzo, sopra terra e sotto mare, un po’ come Napoli, che è appoggiata sul vuoto e sull’acqua. Ed è per questo che entrambe galleggiano sulla realtà.
Dunque, Antonella e Rosario ci ‘cuntano’ come in contrada Ninfa, grazie alla ‘gna Pina, sensale e guaritrice, si  uniscano i destini di Gnazio Manisco, uomo di terra, e Maruzza Musumeci, giovane misteriosa che viene dal mare. La trama è un intreccio di storie e fil di ferro che assume via via le fattezze di un’opera d’arte. La scenografia dietro di loro è essenziale, quasi inesistente. Per forza, il sortilegio di questi due incantatori è quello di popolare una scena completamente nuda di ulivi, cisterne, strade pietrose e impolverate, percorse da vecchie centenarie. Ed è magia pura, perché nonostante gli attori abbiano dietro di loro solo due sedie, tutte queste cose tu finisci per vederle davvero, e senti gli odori della campagna, e le  voci dei pescatori che tirano le rezze.  Su tutto si riversa la luce abbagliante della Sicilia e il mare, che resta sempre come sfondo dipinto, luogo di origine e di ritorni, fonte di pericolo o di ristoro in base alle necessità e alla predisposizione.
Le vicende narrate sono parte di una malìa. Deve essere così per forza perché entrambi gli attori disegnano  storia e personaggi in una lingua che parla direttamente al cuore, che si comprende alla perfezione pur essendo in dialetto, che diventa musicale anche nei silenzi. Ed è così che vieni preso per mano, e ti ritrovi in un tempo lontano, il 1895 per l’esattezza, in contrada Ninfa, quello strano luogo di mezzo, sopra terra e sotto mare, condotto dal suono delle parole, e dal mistero della trama in uno spazio che non hai mai visto, ma che sai perfettamente com’è.
Perché ci sono cose che non sempre si possono spiegare. Uno le sa e basta. Soprattutto se le sa dalla nascita.
Ed è per questo che capita anche di pensarci in continuazione, e di voler tornare ancora là, in quello altrove magico, a metà strada tra un Cunto e l’incanto di una sirena.

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