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Bohemian Rhapsody: l'epopea dei Queen al cinema

di Marco Buffone
Dal 29 Novembre, giorno dell’uscita nelle sale italiane, Bohemian Rhapsody, il film che narra le vicende di Freddie  Mercury e  dei Queen, dal 1970 al 1985,   ha raggiunto i quasi  12 milioni di euro incassati.  A livello mondiale, il film, uscito un mese prima, si avvia deciso a sfondare i 700 milioni di dollari con gli Stati Uniti a fare la parte del leone con 150 milioni di dollari. Dato notevole e non poco sorprendente considerando il rapporto non sempre facile del gruppo con il pubblico d’oltreoceano.  Ad oggi il lungometraggio fa registrare il maggiore incasso nella storia per un Biopic musicale.
Fortemente voluto da Brian May e Roger Taylor, i superstiti della band originale, la pellicola ha avuto una genesi lunga e travagliata, segnata prima dalla rinuncia al ruolo di protagonista di Sacha Baron Cohen e successivamente dall’abbandono durate le riprese del regista Brian Singer, sostituito nel finale da Dexter Flechter. Protagonista assoluto l’attore di origini egiziane Rami Malek nei panni del cantante, affiancato dagli altri “Queen” Gwilym Lee (Brian May), Ben Hardy (Roger Taylor) e Joe Mazzello (Jhon Deacon).
Dopo una rapida incursione dietro le quinte del live Aid, la pellicola ci proietta nella Londra dei primi anni settanta, dove un giovane Farrokh Bulsara (questo il vero nome di Mercury) impacciato e dentone, lavora come scaricatore all’aeroporto di Heathrow, cullando il sogno di diventare una star. Tra contrasti appena accennati  con il padre, rigoroso tradizionalista di origine parsi e l’incontro con quelli che diventeranno i membri della sua band, la pellicola ci propone un Mercury che, accompagnato da Mary Austin, una deliziosa Lucy Boynton, prima fidanzata e amante, e successivamente amica di una vita, si dibatte  fra la scoperta della sua identità  sessuale e la folgorante carriera di musicista, che avrà il suo epilogo nella scoperta della malattia e nel grande concerto del Live Aid. Se ambientazioni e costumi sono di pregevole fattura è la sceneggiatura a lasciare perplessi. Il film scivola via senza guizzi e in maniera scolastica, i dialoghi sono spesso banali e i conflitti in studio tra musicisti  sembrano più  battibecchi  isterici da casalinghe disperate che gli accesi contrasti di una rock band che ha fatto la storia della musica. A dare sostanza ad una costruzione piuttosto debole è sicuramente la colonna sonora ottimamente remixata. Si inizia da una squillante Somebody to Love per passare attraverso molti degli immortali successi della band. Il film sembra decollare nelle scene della lavorazione di Bohemian Rhapsody (la canzone in questo caso) e di tutto l’album “A Night At The Opera”, manifesto e  capolavoro dell’intera produzione della Regina.
Si va dai problemi con la casa discografica per l’eccessiva lunghezza del singolo, a tal proposito riuscitissimo l’ironico cameo di Mike Myers,  omaggio al film “Fusi di testa”,  alla registrazione  del brano, con uno nevrastenico Taylor ad incidere gli acuti più alti della sezione  operistica sollecitato da Freddie che vuole sempre un “Galileo” in più.  Di grande impatto, non solo audio ma anche visivo, le ricostruzioni dei tour americani, con i look fiammeggianti sfoggiati nelle esibizioni e una regia dinamica e frizzante grazie alla quale nella riproposizione degli spettacoli, i quattro attori ricordano con feroce realismo le infuocate performance live. Subito dopo però, il copione torna apatico, quasi sospeso, con il protagonista stretto fra conflittuali patimenti nella scoperta dei suoi gusti sessuali e le divisioni sempre maggiori con il resto del gruppo, poco incline ad assecondare l’umore festaiolo del loro frontman e i suoi progetti solisti. Apprezzabile ma non del tutto riuscito il tentativo di Malek di dar corpo ad un così difficile personaggio, tra i più complessi dell’intera storia del Rock e della musica in generale. L’interpretazione risulta sempre in precario equilibrio tra una caricatura stereotipata che non cattura in pieno l’essenza ed il talento di Mercury e un’imitazione a volte eccessivamente meccanica. Se la cava un po’ meglio, quando si esplora l’aspetto intimo del cantante, libero da cliche’e quindi meno esposto a paragoni con l’immagine pubblica.   Stupisce però, in tutta franchezza, la sua candidatura come migliore attore ai Golden Globe.  
La pellicola, in generale, restituisce al pubblico un’idea soltanto parziale e a volte vaga dell’epopea dei Queen, e non riesce ad esprimerne a pieno la grandezza e l’enorme spessore artistico.  Con un Roger Taylor raffigurato più come un grezzo e rissoso teenager che come uno dei migliori batteristi e compositori della sua generazione. Quasi del tutto oscurata,  o nel migliore dei casi ridotta a bizzarra macchietta, la figura di John Deacon, in realtà, per tutta la sua permanenza, elemento di equilibrio all’interno del gruppo, bassista antidivo, eccellente strumentista e prolifico autore di linee di basso leggendarie. Il più convincente risulta essere sicuramente un sorprendente Gwilym Lee, che oltre all’impressionante somiglianza fisica col chitarrista Brian May ne tratteggia espressioni e posture in maniera credibile e mai esagerata.
Se il film, giocando sul grande impatto emotivo del ricordo di un artista amatissimo e mai troppo compianto, può essere apprezzato da un pubblico trasversale o che ha avuto un approccio  superficiale alla musica dei Queen, i  fans di vecchia data non possono non storcere il naso dinanzi alle numerosissime omissioni e discrepanze spazio/temporali con cui vengono trattate vicende fondamentali e alla banalizzazione di una storia che viene depotenziata  per piegarsi in maniera eccessiva  ai tempi della trasposizione cinematografica. Si passa in maniera troppo frettolosa   attraverso le prime vicissitudini e si tende a sorvolare su molti episodi che avrebbero meritato un maggiore approfondimento: dalla Queenmania in Giappone alla   storica  tournée Argentina del 1981, appena un soffio  prima della guerra delle Falkland, dalla collaborazione con Bowie, all’incontro scontro con Sid Vicious dei Sex Pistols fino alla controversa apparizione nel 1984  in Sud Africa, all’epoca ancora impantanata nell’apartheid, che coinvolse i Queen in un vortice di polemiche mai del tutto sopite,  neanche con la successiva amicizia con Nelson Mandela. Passa pressoché inosservato anche il cambio di look di Mercury, dalla chioma lussureggiante in stile glamour decadente al baffo iconoclasta  tanto in voga nella controcultura gay  per tutti gli anni ottanta (Malek baffuto a dire il vero ricorda più Rovazzi) e che nel caso dei Queen  segnò non soltanto un semplice  cambio di immagine, ma coincise  con un approccio del tutto differente alle sonorità del nuovo decennio, con  l’abbandono dei pomposi arrangiamenti degli anni settanta e l’abbraccio dei sintetizzatori a favore di  un timbro più semplice ed immediato. Una mini rivoluzione già iniziata in epoca post Punk e che sarebbe successivamente sfociata in un pop più commerciale ma sempre di altissima qualità, a sottolineare la grande abilità dei quattro nel maneggiare svariati generi senza perdere un briciolo di classe. Il tema della malattia, in un ennesimo stravolgimento cronologico, viene analizzato in modo molto delicato, forse anche troppo, probabilmente per volere di Taylor e May, e sembra più che altro il pretesto per giungere al gran finale.  Il momento culminante arriva con il Live Aid, il megaconcerto benefico voluto da Bob Geldof con la partecipazione del Gotha della musica mondiale per raccogliere fondi in favore dell’Africa, è sicuramente il momento più coinvolgente e riuscito dell’intera produzione. Da solo probabilmente vale il prezzo del biglietto. Quel giorno i Queen, nella loro massima espressione dal vivo, misero all’angolo e oscurarono tutte le altre stelle presenti a Londra e Philadelphia, da Bowie a Elton John, da Mick Jagger e Dylan, passando per i Led Zeppelin, Dire Straits, gli allora emergenti U2 e una infinità di nomi eccellenti. Dopo l’inizio soft, con le mani di Freddie/Malek che danzano sul piano per la intro di Bohemian Rhapsody, la musica tuona dal Dolby Sorround e sgorga torrenziale fra Radio ga ga, Hammer To Fall, le elettriche svisate di May e il braccio al cielo di un Mercury troneggiante sulla folla, dopo una trascinante We are the Champions, che riscatta sul palco tutte le incertezze di una vita vissuta al massimo ma sempre con un retrogusto di malinconica solitudine. Malek e company replicano in carta carbone ogni passo, ogni azione ed espressione, ogni mossa plastica di quella straordinaria esibizione. La sala si scuote, qualcuno addirittura si alza in piedi come in un vero e proprio live, gli altri restano seduti al loro posto, ma si percepisce la fatica di resistere aggrappati al seggiolino con l’anima che vibra e la pelle invasa da note eterne e da quella voce che ti colpisce come un cazzotto allo stomaco.  Si ha davvero, anche per un solo attimo, la sensazione di essere tra il pubblico adorante in quel caldo Luglio del 1985 a Wembley. Moltissimi hanno gli occhi gonfi di lacrime, praticamente tutti restano fino alla fine dei titoli di coda affidati a Don’t stop me now. Forse si poteva fare di più, si poteva fare meglio, una cosa però è certa, la Regina siede ancora saldamente sul trono.

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