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Globalizzazione o colonizzazione?

Di Mariano Colla

Sembra fare notizia il recente caso del virologo Montaigner che, all’età di 78 anni, sedotto dalle recenti aperture della  Cina in materia di innovazione e ricerca, ha deciso di lasciare la Francia, dove è stato “precocemente” pensionato, per continuare i suoi lavori nel continente asiatico. Montagnier, scienziato francese che nel 1983 ha identificato, in contemporanea a Robert Gallo, il virus dell’Hiv, scoperta per la quale gli è stato conferito il premio Nobel, sta infatti lavorando sulle onde elettromagnetiche emessedal DNA di alcuni virus. L’evento è degno di attenzione per la convinzione, tuttora consolidata, che le destinazioni più ambite da parte dei cervelli occidentali, giovani ricercatori o  maturi scienziati, siano ancora il nord Europa e gli Stati Uniti.
In realtà, da qualche tempo le cose stanno cambiando e, come emerge da recenti pubblicazioni  e articoli di molti giornalisti, tra cui Visetti, Dusi , Rampini, gli orientamenti stanno mutando e il mondo asiatico, la Cina in particolare, si sta configurando come futuro polo di attrazione per le attività primarie di ricerca e innovazione. Sono i preoccupanti segni, per quanto riguarda il mondo della ricerca occidentale, di una inversione di tendenza,  legati alle nuove dinamiche della globalizzazione, da un lato, e allo spostamento delle aree di potere e dominio economico dall’altro. Tale preoccupazione  si enfatizza qualora si prendano in esame i segnali provenienti dalla recente crisi economica. Essa ha  toccato tutto il mondo ma, sicuramente,  in modo più serio l’occidente. Infatti, i tagli a cui sono stati sottoposti i bilanci preventivi di molti paesi europei hanno riguardato anche la ricerca e l’istruzione pubblica, e, fatto sorprendente, è imminente negli Stati Uniti una votazione al congresso che prevede un taglio del 20 %   della spesa pubblica proposta da Obama per il 2011, tra cui anche gli investimenti per la ricerca. In tale contesto la “fuga” di Montagnier non è un fatto marginale, ma rappresenta la punta di un iceberg.

La Cina sta diventando punto di eccellenza per la ricerca e per l’innovazione, progressivamente alimentato dai cervelli dell’ovest o da cinesi che all’ovest hanno studiato, ma, così come nel passato le operazioni di delocalizzazione e i contratti del tipo “build and transfer” hanno consentito agli orientali  di copiare le nostre tecnologie, rendendoli oggi autonomi e competitivi nei processi di produzione, è prevedibile che un domani il nostro sapere scientifico passi , e neanche lentamente, nelle mani degli asiatici. L’economia cinese è florida, cresce ancora con tassi vicino al 10%, la liquidità è illimitata, nulla le impedisce di finanziare e incentivare i migliori scienziati nel mondo, siano essi giovani o anticipatamente pensionati,  fornendo loro centri attrezzati con apparecchiature sofisticate, pagando “ bonus” altissimi legati ai risultati. C’è chi dice che la Cina vuole comprare più credibilità internazionale che  progresso. Di fatto la Cina ha intuito la potenzialità della innovazione e ha deciso di puntare sui cervelli esteri, creando le migliori condizioni economiche e logistiche per  attrarli e sedurli. Le migliori università, le migliori scuole di management, i migliori master si stanno lentamente spostando dalla vecchia Europa e dagli USA a Pechino e Shanghai.

Poco tempo fa  Steven Hill, nel libro  dal titolo “Europe’s Promise – Why the european way is the best hope  in an insecure age”, scriveva che nel complesso e insicuro scenario internazionale, sembra emergere, nella vecchia Europa, una speranza di stabilità, un’ancora a cui la rampante e inquieta  globalizzazione può fare riferimento, nella ricerca di uno sviluppo socio-economico  più equilibrato e umano. Allo stato delle cose riesce un po’ difficile crederlo, anzi la domanda che un occidentale potrebbe porsi  è se il nostro futuro destino preveda una colonizzazione dell’est sull’ovest. L’accelerazione impressa dalla Cina nelle dinamiche della globalizzazione non sembra tenere conto del progressivo  superamento del principio di nazione dettato dalla post-modernità, bensì delinea  strategie di dominio del mondo. La filosofia politica traccia vari scenari circa le possibili evoluzioni della globalizzazione e sulle eventuali forme in cui si possono determinare aree di dominio e aree di depressione, pur tuttavia la Cina sta dimostrando che il modello del capitalismo pianificato, presenta notevoli vantaggi. I leader cinesi, nell’ambito di una formula che coniuga comunismo e capitalismo, hanno capito che lo sviluppo, per essere stabile, necessita di innovazione.

Scrive Giampaolo Visetti : “trasformare la Cina nel modello planetario della creatività in questo secolo, come indicato a fine anno dal governo, è una impresa senza precedenti che impone quelli che l’amministrazione USA ha definito numeri incredibili. Le domande per brevetti in Cina nel 2009 erano 300.000 mila, nel 2010 sono state 520 mila e nel 2015 se ne prevedono 2 milioni. Quello dei brevetti è l’ultimo primato strappato al resto del pianeta”. C’è una soluzione a tale minaccia ? L’attività di economisti, filosofi e politici per identificare un modello globale che eviti asimmetrie  e che metta a “fattor comune” il lavoro di tutti, riducendo, in un mondo a risorse sempre più limitate, gli sprechi dovuti a battaglie  di posizione e di potere, per il momento produce solo idee e studi.

Giovanni Arrighi, economista italiano di fama internazionale, scriveva   che la modernità è caratterizzata da un’alternanza o coabitazione conflittuale  di due principi:
• principio di mondialità: costituito da una costante propulsione alla globalizzazione con una uniformazione tecnologica-comunicativa-mercantile,
• principio di territorialità: costituito dalla dimensione spaziale di stato, confini, limiti, con insite le rivendicazioni culturali di identità.
Per superare tale conflittualità molto si è scritto e molto si è detto. Si coniano neologismi come “glocal”, sintesi della bi-logica della globalizzazione, corto circuito di dinamiche globali e locali, dove i flussi globali, per potersi affermare, non hanno bisogno, entro certi limiti, di passare attraverso la mediazione degli stati nazionali. Secondo la studiosa america Saskia Sassen, il globale ha una natura locale che si afferma tramite le  Global Cities. Le Global Cities sono collocate nello spazio dello stato ma non ne fanno più parte, rimandano a una spazialità non nazionale. C’è lo sconfinamento della funzionalità rispetto alla fisicità. Tali assemblaggi, denazionalizzati, possono condurre a soluzioni globali con strutture di alto livello pubblico e istituzionale. Città come Shanghai  Pechino, Barcellona, Francoforte, Londra, Parigi, New York vanno intese non tanto come megalopoli ma, appunto, come contenitori rilevanti per le transazioni globali, siano esse economiche, finanziarie e politiche.

Con il venir meno della nazione come luogo di mediazione e con il bisogno di identità di fronte a fenomeni che appaiono pericolosamente omologanti è ipotizzabile una struttura sovranazionale, con proprie istituzioni, in grado di controllare il processo di globalizzazione? Vi sono posizioni diverse a riguardo. Tra esse, interessante è la teoria che non vede con favore la costituzione di  un ordine sovranazionale, costruito secondo le  forme, i  tempi e i  modi propri dello stato nazionale ma, bensì, ritiene necessario impostare  un governo globale con una pluralità di istituzioni e di poteri che si controllano e si limitano reciprocamente. Seguirà la Cina questi nuovi paradigmi, spesso di origine occidentale? Sarà disposta a rinunciare a un ruolo egemone a favore di un principio di sovranazionalità condiviso? Ancora non lo sappiamo, ma è opportuno stare all’erta. Una nuova colonizzazione è dietro l’angolo.

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