Nella sala di Scienze Fisiche dell’Accademia Nazionale dei Lincei , nella splendida cornice di Palazzo Corsini, Giuliano Amato ha affrontato il tema delle prossime celebrazioni per i 150 anni dell’unità d’Italia, evidenziando, in tre punti, le problematiche storico-politiche che sottendono l’attuale assetto unitario del nostro paese. Titolo della conferenza era : “Tre questioni sul percorso difficile dell’unità d’Italia”. Come premessa, Amato ha richiamato l’invito del Presidente della Repubblica Napolitano ad avvalersi di tutte le acquisizioni della cultura storica italiana per cogliere il senso del Risorgimento e della nostra storia nazionale, per avviare, poi, una adeguata riflessione sulle incompiutezze del nostro stato unitario. Incontro a Teano tra Giuseppe Garibaldi e Vittorio Emanuele II I temi posti da Amato sono stati:
1) Quale è stato il ruolo del mezzogiorno prima e dopo la unificazione?
2) L’Italia che in concreto fu fatta, davvero tradì un’altra Italia che sarebbe stata possibile ?
3) Nell’Italia di oggi, che avvertiamo tuttora incompiuta, serve ancora un sentimento nazionale?
Per quanto riguarda il primo punto, Amato ha rilevato che la spedizione dei “mille” e la successiva lotta al brigantaggio sembrano, in effetti, configurarsi come azioni di conquista del Nord nei confronti di un Sud estraneo e riottoso. In realtà, ha detto, gli eventi consentono anche una diversa lettura, perché è proprio nel mezzogiorno che si manifestano i prodromi dell’unità d’Italia, sia nella partecipazione massiccia del Sud alle imprese garibaldine, sia, per esempio, nella attiva partecipazione di Napoli ai moti rivoluzionari del 1799, all’ammutinamento del 1820, alla rivolta del 1848, nel ruolo esercitato da Palermo, con il governo provvisorio di RuggeroVII del 1848, propiziato dalla rivolta capitanata da Rosolino Pilo e poi nella rivolta di Cosenza del 1844. Non si deve dimenticare, dice Amato, che è proprio nel regno di Napoli, sotto Gioacchino Murat, che il proclama di Rimini del 1815, redatto da Pellegrino Rossi, declama: “dall’Alpi allo stretto di Scilla odasi un grido solo: l’indipendenza dell’Italia”. E poi non possono essere trascurate le idee fornite dal Sud con Pagano, Cuoco, De Santis, Settembrini, Spaventa, Cordova, tutte finalizzate a un processo di unificazione nazionale. E non sono trascurabili eventi come l’orgoglio e l’entusiasmo dei calabresi di S. Lorenzo, che diedero ospitalità ai primi garibaldini sbarcati sulla costa calabrese che, diversamente, si sarebbero persi, oppure la rivolta lucana, che indusse le autorità di Potenza a proclamare un governo provvisorio dedicato a Garibaldi e Vittorio Emanuele II, quando Garibaldi stava ancora risalendo la Calabria. Il Sud, quindi, si qualifica a pieno titolo come regione fondamentale e attiva nel processo di unificazione nazionale.
Saverio Nitti attribuisce all’economia l’interpretazione di un Nord che ha conquistato il Sud e lo ha condannato all’arretratezza. Ma, secondo Amato, il Sud era già arretrato, sia nell’agricoltura, che nelle industrie meccaniche e tessili, operanti in un mercato protetto e non in grado di reggere la concorrenza su un piano nazionale e internazionale, quando tale esigenza si è manifestata. L’unificazione non ha quindi determinato la questione Sud, ma non l’ha neppure risolta. Giuliano Amato
Il problema, ora, è capire perché l’arretratezza del mezzogiorno è perdurata. Tra le ragioni possibili Amato ha citato una compresenza di fatti, quali:
• scarsa comprensione del Sud, manifestata dai nuovi governanti sabaudi,
• linguaggi dialettali, spesso usati dalle nuove maestranze,
• sostituzione del clero nella proprietà della terra, con una nuova famelica borghesia che ha privato i contadini dei pochi benefici che la gestione ecclesiastica assicurava loro,
• scelte politiche che hanno favorito lo sviluppo industriale al Nord, marginalizzando, o sbagliando, gli impegni industriali al Sud,
• classe dirigente meridionale che, in tale contesto, si è creata rendite di posizione e clientele,
• criminalità organizzata, che nel Sud ha sempre avuto profonde radici.
Nonostante gli errori, la gravità della questione è radicata nella incapacità di dare una risposta esaustiva a un problema che dura da 150 anni. Sul 2° punto, se l’Italia poteva essere migliore, la risposta di Amato è dubitativa, poiché, in quel momento, i dirigenti e il sistema non concedevano molte alternative. Non si può parlare di occasioni perdute perché, forse, non erano occasioni possibili. Lo stato sabaudo era uno stato a sovranità limitata, costretto ad obbedire a pressioni internazionali, spesso non favorevoli a un’Italia unita.
La modernizzazione industriale e la libertà di commercio, che avrebbero reso I’Italia un paese moderno, perché solo lo spazio nazionale poteva consentire tale progetto, persero il loro artefice con la morte di Cavour e, nel contempo, non potevano vantare una classe industriale sufficientemente matura per realizzare un progetto così ambizioso. Poi l’unificazione è continuata, ma fragilità e incompiutezza sono rimasti connotati mai rimossi, portando con sé i dubbi sul che cosa è mancato e continua a mancare, se l’Italia o gli italiani, se la nazione o lo stato. Con riferimento a una asserita compresenza in Italia di due nazioni, Amato cita Luciano Cafagna, che definisce la divisività come l’attitudine italiana ad andare oltre la naturale conflittualità di interessi e idee di ogni società democratica, con l’effetto che ognuno mette in dubbio, in nome della sua Italia, la legittimità dell’altra parte e, quindi, di una piattaforma che li accomuni, alimentando l’idea che il Risorgimento sia stata una occasione perduta in nome di un’altra Italia che avrebbe potuto essere ma che non è stata.
Non va inoltre trascurato il ruolo secolare dello Stato Pontificio, che ha fatto di tutto per avversare il processo unitario italiano. Ha tramato con le nazioni europee, sfavorendo o favorendo coalizioni, a seconda del contenuto politico pro o contro i sabaudi. Ciò detto, passando al punto 3, Amato si chiede se c’è ancora un sentimento di patria che accomuni gli Italiani. Secondo Amato, il sentimento nazionale, visto come etno-nazionalismo escludente, non è una formula proponibile. Esso non deve poggiare solo sulle vestigia del passato ma sulla costruzione di un futuro comune. Anche la tensione risorgimentale animava un progetto comune, un salto in avanti rispetto alla pletora sonnacchiosa e alle facciate imbellettate degli staterelli dell’Italia di allora. Il sentirsi arretrati rispetto agli stati europei ha determinato l’importazione di un modello di modernità che gli italiani non sono mai riusciti a fare del tutto proprio, perché avulso dalla storia e cultura dell’Italia, causando in parte quelle incompletezze di cui gli italiani, appunto, sono ancora oggetto.
Il sentirci italiani, con riferimento alla nostre tradizioni storiche, implica comprendere la cultura del nostro paese, aperto agli inserimenti esterni, alla presenza di “altri” nel nostro tessuto civico, in modo da vedere la cittadinanza non legata al principio “jus sanguinis”. Nazione non etnica, quindi, ma culturale. In tale traiettoria si iscrive il federalismo, quando esso sia inteso come un decentramento delle responsabilità di governo, ma rinsaldi il senso di appartenenza di tutti alla comunità sovrastante. Il federalismo che oggi proponiamo sancisce o supera le incompiutezze che il centralismo risorgimentale ha originato ?
Difficile dirlo. Certamente, dice Amato, per creare un sentimento nazionale è richiesto il superamento della nostra divisività, condizione per immaginare un futuro comune e condiviso che, anche se con difficoltà, si affermò, nel nostro Risorgimento. L’Italia si deve modernizzare preservando l’unicità del proprio patrimonio storico-culturale. Cogliamo l’occasione irripetibile dei 150 anni per sensibilizzare gli italiani su tale percorso.
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