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Kobe Bryant: il prototipo perfetto del fuoriclasse assoluto

Per due decadi Kobe Bryant si è preso di prepotenza il proscenio del Basket mondiale, illuminando i campi da gioco e ritagliandosi un posto d’onore tra i pochissimi eletti nell’olimpo della palla a spicchi. I numeri e i record di una carriera sfavillante non rendono l’esatta dimensione del fenomeno planetario che il più grande giocatore nella storia dei Lakers ha originato in un’intera generazione e in quelle a venire. L’esistenza terrena del “Black Mamba’, insieme a quella di altre 8 persone, tra cui la figlia Gianna Maria, è terminata domenica mattina, in uno spaventoso incidente di elicottero a Calabasas, Los Angeles, mentre si dirigevano a un torneo dove la secondogenita, anche lei colpita dalla “maledizione” del Basket, avrebbe dovuto partecipare, in una beffardamemte nebbiosa giornata Californiana, non proprio la norma sulla West Coast.
Arrivato come un dono dal cielo per riempire il vuoto che da lì a poco avrebbe lasciato Re Micheal Jordan prossimo al ritiro, in una NBA affamata di personaggi da copertina e che già all’epoca era per distacco, il campionato più importante e prestigioso del mondo, e non parliamo solo di pallacanestro ma di qualsiasi sport di squadra, a qualsiasi latitudine e a qualsiasi livello. Bryant partecipa al draft del 1996, annata di vini e campioni pregiati,  nello stesso anno fanno il loro ingresso nel professionismo anche gente del calibro di Allen Iverson, Steve Nash e Ray Allen. Sono gli Charlotte Hornets a sceglierlo ma viene quasi immediatamente girato a Los Angeles in uno scambio col centrale Serbo Vlade Divac. Dopo i primi anni di “rodaggio” diventa insieme al gigante Shaquille O’Neal, l’uomo di punta dei giallo viola, i due con indoli diametralmente opposte però, faticano a fare “squadra” ed entrano spesso in rotta di collisione.
All’alba del nuovo millennio arriva la svolta, in panchina viene chiamato coach Phill Jackson, stratega e architrave di quei Chicago Bulls che con Air Jordan e un roster stellare avevano letteralmente egemonizzato la lega per tutti gli anni 90 lasciando agli altri le briciole.Bryant dirà di lui, “mi ha insegnato la spiritualità del gioco e a mettere in secondo piano il mio ego”. P. J. che con il suo stile di vita Zen riusciva ad andare “under their skyn” sotto la pelle dei suoi giocatori, riesce a trovare la giusta sintesi fra i due diamanti e a limare le differenze caratteriali, canalizzando le energie sul bene della squadra. I Lakers ritrovano gli antichi fasti e per un triennio diventano “ingiocabili” per chiunque, vincendo tre titoli consecutivi. Bryant è la stella indiscussa, dalle sue mani sgorga torrenziale un basket sopraffino e vincente. Difende e attacca segnando valanghe di punti, è l’uomo dei momenti decisivi, dell’ultimo possesso, dell’ultimo tiro, quello a cui viene affidata l’ultima palla che  decide il lavoro di un’intera stagione, e per come è concepito il  basket, dove non c’è nulla di casuale, è un concetto tutt’altro che banale. Il sodalizio con Shaq si rompe ma la franchigia resterà sempre competitiva e vincerà ancora. Kobe è ormai un’icona globale, uomo di sottile  e raffinata intelligenza, fonte di ispirazione per la sua etica sportiva, conteso dagli sponsor e venerato anche dalle tantissime star di Hollywood tifose dei Lakers, e sempre nei primi, costosissimi posti dello Staple Center per applaudirlo. È il prototipo perfetto del fuoriclasse assoluto che ogni tifoso vorrebbe avere nella sua squadra. Il talento cristallino è costantemente alimentato da un lavoro maniacale, una compulsiva ossessione nel migliorarsi per primeggiare. Una ferocia agonistica neanche minimamente scalfita o attenuata dalla fama e soprattutto dai milioni di dollari di contratti sportivi e pubblicitari dalle cifre esorbitanti, che fanno apparire i compensi dei nostri calciatori di serie A come poco più di un rimborso spese e che spesso imbolsiscono i muscoli e il cervello di campioni o presunti tali. Un uomo avvolto nel “fuoco sacro” che ha con il suo sport un rapporto di mistica e totale devozione. Si allena in tutte e 5 le posizioni, potrebbe tranquillamente ricoprire tutti i ruoli, è soggiogante con gli avversari ed esercita  una carismatica ed assoluta leadership sui  compagni, dai quali pretende in maniera martellante niente di meno del massimo, in ogni secondo, di ogni partita, di ogni allenamento.
Nonostante il suo status di leggenda vivente già ampiamente acquisito, nessuno arrivava prima di lui in palestra e nessuno andava via dopo.In 20 rotazioni terrestri dal 1996 al 2016  tra punti segnati, partite giocate, nomine a MVP,  ori olimpici e una serie di numeri insensati, riscrive  gli almanacchi statistici, ma soprattutto, quando esce per l’ultima volta dal suo spogliatoio i Lakers hanno 5… si, 5 “anelli” in più di quando ci era entrato, per chi non ha una percezione di cosa significa, fidatevi, è qualcosa di abnorme. Il suo ultimo anno si trasforma in un lunghissimo, perenne omaggio che gli avversari di una vita vogliono tributargli mettendo da parte ogni rivalità e lasciando spazio ad una una pura e trasversale ammirazione. Nel 2018 travalica quelli che sono i canonici confini dello sport, e viene addirittura premiato con l’oscar per la sceneggiatura del cortometraggio di animazione “dear basket”, ispirato alla sua struggente lettera di addio al gioco. Dal palco dell’Academy nel  ringraziare, dedica la statuetta alla moglie e alle 4 figlie, e lo fa in un perfetto Italiano. Si perché non tutti sanno, che dai 6 ai 13 anni, Kobe Bryant, mito dello sport a stelle e strisce, per cui il mondo intero si è fermato a rendere omaggio ha vissuto in Italia, e più precisamente nella nostra piccola provincia, tra Rieti, Reggio Calabria, Pistoia e Reggio Emilia a seguito di suo padre, buon giocatore di fine anni 70 e 80. È con la sua maestra di Rieti che ha imparato la lingua. È talmente legato a tutti a quei luoghi che quando può torna, e lo fa non da ricco turista, ma da amico della porta accanto che ha conservato rapporti con tutti quelli con i quali da bambino ha incrociato il suo destino o quanto meno un pezzetto di strada, “assaporando” a pieno la distanza siderale che c’è fra una stella  NBA di prima grandezza, che frequenta  Rodeo Drive e Boulevard Street, e quelle strade intime che accendono ricordi neanche troppo lontani. È  stridente la differenza che  intercorre tra la  sua espressione ruvida e tirata, quasi spigolosa, e dei suo occhi di ghiaccio, quando nei dopo partita, accerchiato da decine e decine  di microfoni deve dissertare su  azioni di gioco e gesti tecnici, e il suo sorriso enorme e l’aria serena e rilassata di quando, con una inflessione più emiliana che angloamericana, si “rammarica” per le sue figlie che nelle magalopoli statunitensi non possono capire cosa voglia dire prendere un gelato in piazza e fare un giro in bicicletta con gli amici nei vicoli di Reggio Emilia, in una dimensione umana e a loro totalmente sconosciuta. A gettare un velo ancora più oscuro su questa straordinaria parabola umana e sportiva, dal finale  totalmente e tragicamente inaspettato, è che ogni volta che qualcuno gli chiedeva, “Kobe, ma un po’ ti dispiace di avere 4 figlie femmine?” Lui rispondeva sempre, “vuoi scherzare vero? Io ho la mia Giannina che terrà alto il mio nome nel Basket”.
di Marco Buffone

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