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La rivolta del Mediterraneo

Di Mariano Colla

Che cosa sta accadendo in Medio Oriente? Quali le cause di una rivolta che sta scuotendo la Tunisia, fino a poco tempo fa mite e pacifico paese del Mediterraneo, l’Egitto, punto di riferimento della politica araba moderata, e che se sembra minacciare  l’Algeria, al momento con un governo militare,  il Libano degli Hezbollah e il grintoso Marocco? Sembrano sotto assedio i paesi che, almeno sulla carta, sono, da tempo,  più vicini, per cultura e per politica al mondo occidentale. La cerniera del Maghreb, luogo di relativa tranquillità politica nel convulso mondo arabo, è sotto tensione, soggetta a violenti, quanto improvvisi, movimenti di piazza. Il quadro politico-sociale in crisi è quindi quello rappresentato dagli alleati laici dell’occidente nel mondo musulmano. La scintilla che ha scatenato i movimenti di protesta in atto, assai prossimi a una rivoluzione, possiamo attribuirla all’indigenza delle classi sociali sottoposte ad ulteriori restrizioni economiche  e  ai rincari sui beni primari, come il pane, ma anche alla maturata consapevolezza di comunità non più disponibili ad essere dominate da dirigenti e governanti corrotti,  amici dell’Occidente e da questo finanziati e sorretti per il loro apparente ruolo di mediatori politici nell’area del Medio Oriente. Ruberie, privilegi, ricchezze, rese note anche dalla diffusione sempre più massiccia di fonti informative, quali internet, Facebook, Twitter, Wikileaks, non sono ulteriormente tollerabili con la crisi incombente.
I leader carismatici di una volta subiscono un doppio scacco; il primo di non controllare  più l’imposizione sulle masse di un totalitarismo, spacciato per democrazia, il secondo  di subire, di fronte al tribunale del popolo,  una condanna etica e morale che ha proprio nei  principi della religione islamica il suo fondamento. La rapidità con cui i focolai di rivolta si sono estesi ai suddetti paesi è un chiaro segnale di rigetto delle forme meno nobili della cultura politica ed economica dell’occidente, qui applicate da governanti senza scrupoli. Ma vi è anche una presa di consapevolezza dei propri diritti, non solo da parte delle classi più umili, ma anche da  una generalità di individui non più disposti a farsi ingannare da modelli democratici fasulli e non sostanziali. In tali rivolte, tuttavia, e per fortuna, non sembrano vedersi i segni dell’integralismo religioso, ma, forse, è presto per dirlo.
L’apparente calma che sembra regnare in altri paesi del mondo arabo, come la Siria e la Libia, dove la dittatura non si nasconde dietro presunte  forme democratiche, dove il rapporto con l’Occidente è più critico, e dove l’Islam è maggiormente presente, induce, nondimeno, qualche riflessione aggiuntiva sul radicamento del modello di vita musulmano. Bernardo Valli ricorda che, in Tunisia, Ben Alì rilanciò l’economia, gettando le basi di un liberismo nuovo per il paese e schiacciò il partito integralista. Per questo è stato, a suo tempo, considerato un moderato. Lo slogan politico di Ben Alì era “gli estremisti, amici di Bin Laden, vogliono il potere”. Con questa formula gli occidentali si sentivano tranquilli al punto da trascurare il carattere sempre più poliziesco e restrittivo del regime e non si accorgevano del progressivo abbandono da parte di Ben Alì di quella politica sociale che aveva caratterizzato i primi anni del suo lungo potere. Oggi la crisi economica ha eliminato i pochi vantaggi sociali e ha messo in risalto la repressione.
In Egitto, Mubarak si è affermato come uomo chiave negli equilibri mediorientali, come stretto alleato degli USA e conciliante con Israele. Facilitato da tale ruolo,  ha potuto mantenere per 30 anni il potere dietro la parvenza di una democrazia che nascondeva un sistema repressivo e autoritario, fonte di soprusi e corruzioni. Il paese, con 80 milioni di abitanti, posto in una zona critica dello scacchiere internazionale,  è storicamente noto per avere ingenerato  forti contrasti politici interni, a partire dai “giovani colonnelli”, che con la loro rivolta cacciarono gli inglesi dall’Egitto, e poi con il regime di Nasser, in contrasto con i Fratelli Musulmani, con Sadat, che nel 77 dovette annullare il rincaro del pane sotto la pressione della piazza  e fu poi osteggiato e ucciso anche per le sue aperture politiche  verso Israele e, infine, con Mubarak, uomo dell’occidente, al potere con una politica di stampo dittatoriale. In tale contesto, non è una sorpresa che  potessero sorgere, nei suddetti paesi, tensioni interne con il peggiorare della situazione economica e con il manifestarsi di una rivoluzione  panaraba che potrebbe coinvolgere anche i paesi vicini, come Algeria e Marocco, non lontani dai modelli socio-economici di Tunisia ed Egitto.
Hegel diceva  che la rivoluzione in strada è sempre un atto conclusivo e non il fondamento di un processo di trasformazione. La rivoluzione materiale segue una rivoluzione spirituale delle idee. Le trasformazioni culturali, sociali, civili, politiche, economiche non avvengono attraverso rivoluzioni che spazzano via le istituzioni del passato. La storia non si compie a causa di processi che violentano la realtà dall’esterno, bensì attraverso un inevitabile venir meno, un autonegarsi, delle forme patologiche insite nelle  istituzioni, perché sono destinate, per il loro essere istituzioni che non corrispondono più alle esigenze collettive, ad autoeliminarsi,  oppure, ad essere invase da qualcosa più potente di loro. Una  moltitudine può trasformare un potere oppressivo, generalmente dando forza simbolica a un potere che consente la rappresentanza di un universale.
El Baradei, premio Nobel per la pace, vuole tentare una mediazione tra il mondo laico  moderato e i fautori dei rigurgiti religiosi. Il punto è di capire sino in fondo quali siano i veri motivi della rivolta. La violenza, a volte, è fine a se stessa, se non viene guidata e orientata. Il rapporto con Israele del mondo arabo è del tutto irrisolto, grazie anche alla infausta politica di Netanyahu degli insediamenti dei coloni in Palestina. Un orientamento del mondo arabo verso forme di intransigenza, già manifestare da Iran, Libano, Siria e ulteriormente aggravate dal contributo delle irrisolte questioni di assetto politico relative a Iraq e Afghanistan, sarebbe un  grave problema per tutto il Medio Oriente.
Il Libano da più di 30 anni è una polveriera, prima con la guerra civile tra Drusi e cristiani maroniti, poi con il movimento  Hezbollah e il perenne conflitto con Israele. La Giordania sembra reggere, ma, certamente, il suo ruolo nella regione non è trà i più rilevanti. Rimane l’incognita Arabia Saudita dove, tuttavia, il benessere diffuso e il ruolo sacro per l’Islam dovrebbero attenuare gli influssi di una decennale dittatura. Il rischio, comunque, è la possibilità che con le rivolte in corso alcuni  paesi del Medio oriente  si possano allontanare dall’area di influenza occidentale, confermando, con ciò, la scarsa lungimiranza degli artefici della politica internazionale di Europa e USA che, pur di conservare al potere i vecchi referenti, come garanzie di pluralismo e di traffici economici,  non hanno percepito i malumori delle masse. La rivolta del 79 in Iran si  scatenò anche per questi motivi.
Non penso che gli integralisti possano assumere il potere, né tanto meno che una ondata confessionale possa essere alle base delle rivolte in atto. Quello che vedo è una  progressiva trasformazione del mondo arabo in cui l’Occidente non avrà più un ruolo significativo e dominante, una trasformazione in cui i principi laici avranno degna rappresentanza e non ostacoleranno la creazione di una unità araba  in termini politici, sociali, economici e anche religiosi, con la quale il mondo occidentale dovrà comunque fare i conti.

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